8 ottobre 2009

Al Sultano Cheelì - 10

La lite tra Sulpa e Corenti

Corenti pure salutava, girandosi continuamente a guardare verso la casa che rimpiccioliva dietro di noi. Aveva l'aria commossa dell'uomo stanco che è stato tra le braccia di una donna per lungo tempo.
“Queste vedove...” sospirò .
“Ah, era una vedova?”
“Diciamo vedova, ma non so se il marito sia morto. Però è come se lo fosse.”
“Allora perché la chiami così?” chiese Sulpa.
“Sono tre mesi che il marito non c'è. Lei stessa mi ha raccontato la sua sua triste storia. Amici, non vi nascondo che ho stentato a trattenere le mie lacrime.”
“Sei troppo sensibile, si vede da come ti comporti” disse Sulpa guardandomi significativamente.
Sorrisi. Ma non sorrise Corenti, anzi sembrò piccato a quelle parole.
“Che vuoi dire?”
“Ma come, ti porti a letto una donna e ti commuovi per il marito?”
“L'hai detto tu stesso che sono troppo sensibile. E poi – disse Corenti melodrammatico – è stato proprio un lampo d'amore.”
Non potemmo fare a meno di ridere. E ridemmo ancora di più quando Sulpa cominciò una pantomima spassosa di Corenti e la vedova che copulavano sfrenatamente. Sulpa impersonava Corenti e un albero di pere era nei panni della donna. Mente lui le diceva “Amore, sì, sì.. parlami di tuo marito” l'albero si scuoteva facendo cadere qualche frutticino maturo.
Corenti se la prese proprio a male. In un attimo fu addosso a Sulpa ingiuriandolo e battendolo con un pezzo di legno che gli era capitato a portata di mano. E mentre uno diceva “Che ne sai tu dell'amore?” l'altro, tra un cazzotto e uno spintone, gli diceva semplicemente “Sei un ipocrita porco.”
Riuscii a dividerli prima che si rompessero le corna tutti e due.
Affannavano seduti nella polvere che avevano alzato nella lotta.
“Direi che basta così – dissi – non dimenticate che questo non è un viaggio di piacere e vi siete offerti per aiutarmi. Alzatevi e andiamo.”
Allora Corenti disse: “Dobbiamo fare attenzione ai combattenti o prenderanno anche noi.”
“Ma di che diavolo parli?”
“La vedova mi ha detto che il marito è stato rapito. Una mattina sono arrivati in sei, a cavallo e armati. Hanno fatto uscire dalla stalla il povero Matierni, il marito della vedova. Gli hanno legato le mani prima che potesse afferrare un'accetta e lo hanno portato via. Matierni diceva di non aver fatto nulla, che era un semplice contadino e che obbediva alle leggi. Implorava di lasciarlo andare mentre la vedova straziata cercava di fermare il cavallo di quello che sembrava il capo della banda. Ma niente. I bambini piangevano e strillavano. L'hanno portato via lasciando l'inconsolabile donna da sola.”
“Be', inconsolabile è una parola grossa” interruppe Sulpa ma Corenti fece finta di non aver sentito.
“In questa zona girano uomini armati che catturano gli uomini e li portano via. Si dice che ci sia una specie di esercito fatto di questi rapiti. Il caso della vedova non è l'unico da queste parti. ”
“Allora è proprio il paese che fa per te” disse Sulpa. Questa volta Corenti gli tirò una pietra senza colpirlo e per fortuna la mischia non si riaccese.
“Sta accadendo qualcosa di grosso in tutta l'isola, credo” concluse Corenti.
“Ma sono anni che non si parla più di briganti.”
“Non si tratta di briganti, è evidente. Quelli rapivano gli uomini per avere denaro. Da quello che si sente dire, qui si tratta d'altro, sono uomini che vengono portati via per formare una specie di esercito o qualcosa del genere.”
Mettendo in mostra la mazza con lo stendardo dissi che se ci fosse stata una guerra in atto tu, mio Sultano, avresti certo mandato un dispaccio per informarne i tuoi servitori fedeli. E' vero che sono quasi due anni che nessun dispaccio di nessun genere ha raggiunto il governatorato di Colanskji. E' ancora più vero che nei nostri piccoli villaggi dell'interno le notizie arrivano sempre dopo, ma una cosa così grossa l'avremmo dovuta sapere anche noi, che diavolo! In occasione delle guerre non è mancato uomo fedele ai tuoi ordini anche a Colanskji. Lo stesso Sulpa ha combattuto la guerra delle Due Riviere.
Ma se c'è chi rapisce gli uomini abili alla guerra, come faremo a trovare uomini per lavorare la terra?
Intanto s'era fatto tardi. Calato il sole s'erano accesi i grilli. Nel cielo su cui si stende il tuo giusto governo, ogni stella aveva qualcosa da dire. Decisi di proseguire per almeno un'ora. Avremmo messo tra noi e la vedova una distanza sufficiente a scoraggiare la vocazione consolatoria di Corenti. Finalmente ci stendemmo in un campo per dormire.

29 settembre 2009

Al Sultano Cheelì - 9

La vedova

Camminammo non poco per raggiungere la casa che era stata di Sulpa. Dovemmo attraversare un ruscello poco profondo per evitare un giro troppo lungo e l'ultima parte fu tutta una salita verso la cima dove c'era la casa.
Corenti non fece che bestemmiare per tutto il tragitto, lamentandosi di ogni cosa gli capitasse sott'occhio: l'acqua, le pietre, le spine, l'aria. Ogni cosa, insomma.
Sulpa non parlava e nemmeno a me venne in mente di aggiungere parole al suo silenzio.
Un cane ci abbaiò contro non appena fummo a poco distanza dalla casa. Uno spiazzo ben tenuto le stava davanti e vi giravano tutti quegli animali di bassa corte che fanno ricche queste case di campagna e le tengono sempre vive di suoni e di movimento.
Una donna che rimestava in un secchio si voltò verso di noi cercando di riconoscerci.
Non potendo darci un nome tra quelli che conosceva, ci chiese chi stessimo cercando.
"Non cerchiamo nessuno. Sono l'intendente del Sultano, del governatorato di Colanskji. Dateci da bere, buona donna".
Agitai il bastone con il vessillo a chiarire il concetto e fugare ogni incertezza. La donna capì, ci fece sedere su un sedile di pietra e sparì in casa. Quando ricomparve aveva una brocca d'acqua e tre bambini che le giravano intorno.
Corenti, come sempre gli accade quando vede una donna, si ritrovò con la lingua sciolta. Cominciò a chiedere notizie sulla produzione della zona e se la siccità era stata forte, se c'era produzione di ortaggi, e quale i lavori più urgenti da fare. "Occorrono pozzi? Un ponticello sul fiume non sarebbe poi comodo a tutti?". Disse, a questo riguardo, che avremmo fatto sapere tutto al Sultano. Del che io mi vergognai, ma l'acqua era fresca e tutto passava in subordine.
Ed ecco che la donna ci fa una relazione come solo i contadini della nostra amata terra sanno fare. Dice che le cose peggio non potrebbero andare, che il gran caldo non ha reso possibile nessun raccolto, che le piante sembrano morte appena nate e nate da poco prima di morire definitivamente senza aver dato nessun frutto. Una terra senza giovinezza e senza maturità, insomma, che dio la maledica!
Hai pomodori piantati? Fanno i fiori e il vento caldo li fa cadere. Se pianti patate ci pensano i topi a lasciarti solo le foglie. La vigna la mangiano i cinghiali e quello che lasciano è buono per farci un decotto e non certo per dare da bere agli uomini assetati quando a sera fanno ritorno dalle terre più lontane, se . "No - dice la donna - quest'anno era meglio non perderci il tempo con la terra e starsene a guardare la malora generale senza darle la fatica delle braccia".
L'anno precedente, invece, era stato abbastanza buono. Perché l'anno precedente, almeno, qualcosa s'era raccolto. No, non c'era paragone, anzi, decisamente un'annata discreta era stata. Insomma, mio Sultano, i soliti discorsi che tutti i contadini della tua terra ripetono ogni anno da anni e forse secoli o comunque tutte le volte che sospettano di dover tirar fuori qualcosa. E' brava gente che vive nell'anno precedente.
Terminata questa litania, Corenti dice che ad ogni modo le donne della zona sono le più belle che lui abbia mai visto, e che sono il fiore profumato di questo deserto doloroso. Un poeta... E lo dice così, senza che la frase abbia nessun nesso logico con il discorso che si sta facendo.
Ma che sia un lampo in un cielo senza nubi la signora non lo vede, anzi deve trovare la cosa coerente a sufficienza, infatti si prende il complimento per buono e si propone di offrirci qualcosa da mangiare. "Ma una cosa alla buona, che in casa non c'è molto" ci avverte.
Diavolo di Corenti! Ecco che strappiamo a questa annata miserabile che sembra destinarci ad una carestia senza precedenti un gran pezzo di pane ben cotto e peperoni, olive, fagioli e insalata e un pezzo di formaggio dall'ottimo aspetto e di miglior sapore, per giunta un salame così piccante che la lingua fatica a sentire i denti in bocca. Tutto in abbondanza. Non manca una seconda brocca, stavolta piena di vino. Forse un po' amaro, ma buono.
Corenti, che probabilmente punta addirittura al dolce, si spertica in complimenti ad ogni boccone. I peperoni sono cotti come nessuno mai li ha saputi cuocere, l'insalata sembra tagliata dalle mani di una fata tanto sono sottili e croccanti le foglie sotto la lingua, le olive sono conciate senza essere dure e senza essere troppo mosce. E qui ammicca, ah se ammicca.
"Porto qualcosa anche per il vostro amico? Avrà fame anche lui" chiede la donna. Ci accorgiamo che Sulpa non è con noi e si è perso quella colazione.
"Vado a cercarlo io" e lascio che Sulpa intrattenga la donna come gli pare, chiacchiere non gli mancheranno.
Giro intorno alla casa ed eccolo lì. L'albero è davvero grande e ci sono sul serio gli uccelli che vanno e vengono, incuranti dell'altalena che due corde tengono sospesa con Sulpa che ci sta a gambe tese, gli occhi chiusi dentro chissà quale ricordo o chissà quale trionfo che gli stampa sulla bocca un sorriso mentre i bambini lo spingono di gran carriera verso il cielo aperto.
Mio Sultano, dicono che l'estasi sia uno stato di grazia di breve durata, una specie di pesce che lampeggia sul fondo scuro del fiume facendosi catturare solo dall'occhio del pescatore che si annoia nell'attesa. Evidentemente quello di Sulpa era destinato a prolungarsi un po' di più.
A turno i ragazzini lo spinsero per lungo tempo senza che la sua faccia mutasse aspetto. Il sole cadeva dietro le colline e sull'albero gli uccelli sembravano prepararsi alla notte. Se ne erano concentrati parecchi tra i rami e in un frastuono infernale si preparavano al silenzio della notte.
Aspettai che Sulpa scendesse dall'altalena. Poi insieme dovemmo aspettare che Corenti scendesse dalla giostra della donna che aveva spinto la sua cortesia oltre ogni previsione. Perché, mio Sultano, l'ospitalità delle tue genti è veramente senza limite da queste parti.
Quando tutti i dondolii furono finiti, ci avviammo inseguiti per un bel pezzo dalle voci dei bambini che salutavano Sulpa.

Al Sultano Cheelì -8

La casa di Sulpa

Era tempo di fermarsi e mangiammo qualcosa ciascuno per suo conto all'ombra di una pianta.
Sulpa invece s'era messo a un canto della strada e guardava incantato fisso ad un punto.
"Che c'è Sulpa? Che stai guardando?"
Mi fece un cenno con la mano in direzione di una collina sulla cui cima si intravvedeva una costruzione bassa e larga. Era probabilmente una casa di pastori o un semplice ricovero per le bestie, a giudicare dalle dimensioni del fabbricato.
"Un ricovero per il bestiame… Ne abbiamo visti tanti fino ad ora." dissi.
"Be', quella era casa mia. C' ho vissuto da ragazzo." disse Sulpa. "Guarda il tetto di quanti colori è. Sembra un aquilone. Non so quante volte l'abbiamo riparato io e Silpa. Un'estate ci fu una tempesta che ce ne portò via quasi una metà. Passammo tre giorni a cercarne i pezzi ancora utilizzabili tutt'intorno la casa, sparpagliati come una manciatina di sale. Eh, il posto è bello ma quando tira il vento è sempre un problema. Quella parte di tetto che vedi più rosa, là, sulla destra, quella è fatta con le tegole della stalla di Pirincip, un nostro parente che viveva in fondo all'altra valle. Questo Princip, che noi chiamavamo zio Prin, lasciò la terra e tutto ciò che aveva, bestiame e piante, all'improvviso".
"Nel senso che partì?" chiesi poco curioso del destino dello zio, ma più per cortesia.
"Non se ne sapeva nulla. Non se ne è saputo più nulla dalla sera alla mattina. Le sue cose sono andate in malora. Per un po' abbiamo pensato che sarebbe tornato, ma niente. Così io e Silpa una volta siamo arrivati fino a quella specie di catapecchia dove viveva e abbiamo fatto un carico delle poche tegole ancora utili, o di quelle che erano rimaste perché la gente lì vicino si era già servita. Degli attrezzi e degli animali neppure l'ombra, ovviamente."
Alzando lo sguardo al cielo tutto preso dal sole, Sulpa aggiunse "Proprio così, sparito da un giorno all'altro. Partito o solo sparito, chi lo poteva dire? Chissà, forse il vento di tutte le tempeste s'era portato via zio Prin tutto intero."
Automaticamente guardai anche io nel cielo, come se da un momento all'altro potessi vedere che fine avesse fatto questo zio aspirato nelle altezze del cosmo e risolvere con un colpo di fortuna il segreto che lo avvolgeva. Niente altro che un cielo con un sole abbagliante, una nuvola piccola e chiara appoggiata in fondo alla scena sopra la fila di colline che avevamo davanti.
Feci per muovermi, considerando che il racconto fosse finito. Ma Sulpa mi mise la mano sul braccio per fermarmi.
"E l'albero grande, lo vedi l'albero grande? L'ho piantata proprio io. Era solo una ghianda messa in una vecchia scarpa con della terra. Era una piantolina con una forza straordinaria. In pochi mesi era già alta così" e mise la mano a mezz'aria come stesse accarezzando un cane.
"Guarda adesso che pianta! Ci stavo attento tutti i giorni: acqua, terra, un po' di letame. Poco per volta cambiavo il contenitore finché fu pronta per la terra aperta. La difendevo dalle formiche e dal maiale che ci si voleva strofinare la schiena. Mi ero convinto che senza di me non potesse farcela. Pensavo che saremmo cresciuti sempre assieme. Uno necessario all'altra."
"Pare che se la sia cavata bene anche da sola" dissi.
"Pare anche a me" aggiunse deluso Sulpa. "Eppure siamo stati bene assieme. Aspettavo solo che crescesse per metterci un'altalena o farmici un rifugio. A volte mi immaginavo che sarebbe stata il mio miglior riparo alle piogge o il mio posto preferito per la caccia ai nidi. Poi un giorno è tornato".
"Ma chi?"
"Lo zio Prin. Bussano alla porta ed eccolo lì sull'ingresso, tutto ben vestito, quasi con un'aria da signore. Una tunica ben rifinita, una grossa borraccia a tracolla e per completare l'opera e la nostra meraviglia anche un fucile sulla spalla. Allora mio padre gli chiede cosa ci faccia dalle nostre parti, con un tono un po' infastidito tanto che io e Silpa ci fermiamo dove siamo. Perché stavamo per corrergli incontro felici di rivederlo. E lui fa per entrare, ma anche mia madre gli dice di restare dov'è. Briganti in casa non ne vogliamo, gli dice. Dice anche che tutta la famiglia ha vergogna di lui. Capisci? Un brigante in carne ed ossa alla porta della nostra casa e per giunta è lo zio Prin, uno che gli potevamo tirare i baffi e che adesso ci potrebbe tirare il collo a tutti e quattro quanti siamo nella cucina. Io e Silpa non possiamo credere a quello che vediamo perché dei briganti abbiamo sentito parlare senza averne mai avuto un'idea chiara. Sappiamo cosa fanno, sappiamo che è gente violenta. Quando Silpa mette il dito nella pentola prima che siamo tutti a tavola e se lo lecca di gusto mia madre gli dice che è proprio un brigante, proprio così.
Allora mi passa per la testa che lo zio Prin sia venuto a reclamare per le sue tegole e a lamentarsi del nostro furto. Vedrai che adesso mi dice che sono un lurido porco ladro, penso tra me e me e mi metto più dietro a mio padre. Ma i briganti sono così, è gente che prende la roba degli altri senza chiedere il permesso. Quindi zio Prin non può mettersi a fare tante storie per qualche tegola proprio con noi che siamo suoi parenti. Ma un brigante non si lascia fermare dalle parole di una donnetta qualsiasi e dalla domanda di un uomo disarmato.
Entra in casa e si siede al tavolo, si serve una sorsata d'acqua dalla brocca e per giunta si colma la borraccia che ha al fianco. Dice solo poche parole: grazie dell'acqua. Ma lo dice tra i denti e con un sorriso storto senza allegria, e io penso che si riferisca all'acqua che gli è piovuta nella casa senza tegole e mi metto ancora più dietro a mio padre. Invece lui mette due monete grosse accanto alla brocca e sparisce, questa volta per sempre."
"Bene, sarà meglio riprendere il cammino" dico io.
"Monete d'oro" dice Sulpa e allora mi fermo dove sono.
"Due monete d'oro con la faccia di Supàr Parìd che brilla di luce. Una roba mai vista in casa mia. Fu con quelle monete che mio padre comprò l'asino che ci avrebbe portati via di qui. E due agnelli figli della stessa pecora che mio padre chiamò Sulpa e Silpa, proprio come noi, creando qualche confusione fin quando non decise di non chiamarli più per nome."
"E poi? Che ne è stato del brigante?"
"Ecco, in verità mio padre aveva dato lui dei soldi a zio Prin ai tempi in cui le cose non gli andavano bene. Ma mio padre si era preso a garanzia la sua casa, mettendolo alla porta e destinandolo a vivere in quella catapecchia che poi lui aveva abbandonato all'improvviso. Zio Prin era tornato sotto forma di brigante a saldare il debito e a riprendersi caparra e garanzia, pagando certamente molto più di quello che aveva avuto a suo tempo. Seppi poi che mio padre avrebbe voluto tenersi la casa e restituire il di più, ma non ci fu nulla da fare. Zio Prin volle prendersi la soddisfazione di vederci andar via. Così dovemmo lasciare la casa mentre lui ci guardava partire."
"Ma che diavolo!" dissi indignato.
Ma Sulpa si fece una risatina amara come non gli avevo mai visto fare.
"Chi fosse il diavolo me lo sono chiesto anche io, mio padre o zio Prin? Dove era cominciato il male? Chi aveva rubato di più? Non saprei dire. Ma il mio albero è ancora lì e, a giudicare dagli uccelli che ci girano intorno, ci devono essere molti nidi. Ma forse nessuno ci ha mai giocato sopra."
"Andiamo a vedere" dissi senza pensarci troppo su.

Al Sultano Cheelì - 7

Via dalle donne

Chi guarirà l'uomo dai dolori che una donna, anche qualsiasi, può infliggergli? Per quanto ci fossimo fatti coraggio tra noi mostrandoci sprezzanti e indifferenti, le parole della Gagliova battevano ancora nelle nostre orecchie e picchiavano sul nostro amor proprio ancora con più forza.
Incamminati sulla strada maestra, ce ne andavamo in fila silenziosamente tirando di tanto in tanto qualche calcio alle pietre, come muli insoddisfatti che portano un peso non appropriato alle loro forze.
Mi sono spesso chiesto, mio Sultano, quale sia l'aria e la luce del giorno che possano cancellare del tutto i segni di una notte con una donna. La giornata che avevamo davanti era impastata di bel tempo, il vento aveva tirato via dal cielo ogni nuvola. Un poco di pioggia aveva smaltato foglie e tronchi degli alberi. Era solo colore, quell'acqua non era certo abbastanza per irrigare la terra e adesso che il sole era ricomparso forse avrebbe solo steso un altro velo di arsura sul terreno.

Corenti fu il primo a spezzare le parole del nostro disappunto. “Che cosa vuol dire che uno ha la miccia corta? Quella strega ha detto che Sulpa ha la miccia corta e la polvere bagnata.”
“Veramente si riferiva a te, Corenti. Non cambiare le carte in tavola”, ha puntualizzato Sulpa.
“Ma che dici, mentitore? Credi di poter fare carrozzine fasulle anche con le parole?”
Da qui in poi, mio Sultano, il discorso si è fatto troppo acceso e poco adatto alle tue orecchie che sono abituate a ben altro. Io stesso ho tralasciato di seguirle. Mi sono invece messo qualche metro più avanti per non sentire. Ero infastidito dalla lite verbale di Corenti e Sulpa, ma avevo in mente altro. Dove avremmo trovato uomini per lavorare le terre di Colanskji? Chi mai ci avrebbe aiutato?

Al Sultano Cheelì - 6

Dopo il sogno

Mio Sultano, che tu non abbia ad offenderti se ti ho sognato con tanta familiarità. Se questo offende la tua persona o urta in qualche modo la tua dignità, sii severo con me. Lascia che io apprenda le buone maniere e come si conviene, a un servo, trattare il padrone anche nel sogno.
Ma se dovessi raccontarti favola più bella o delirio più splendente, sempre questo sogno ti racconterei.
Vedo però che a più tristi cose è destinata la mia scrittura. Altro è l'argomento del resoconto che scrivo per te. Forse ho troppo divagato. Abbondanti sono le parole dello sciocco.
Ma è bene che tu sappia fino in fondo il dove e il come di ogni cosa, perché è solo quando l'artigiano passa l'ultimo colpo di vernice che il suo lavoro di giorni è ben visibile. Solo allora esso splende, finalmente tratto fuori dalla bottega oscura e dalle forme approssimative della materia, come l'anello al dito di una donna.

Passammo così qualche ora. Sulpa ebbe un sogno agitato e continuava a muoversi da un seno all'altro dell'ostessa senza trovare la posizione giusta che gli avrebbe donato la serenità. Corenti russava della grossa col capo poggiato ai capelli che la donna teneva raccolti in due grosse trecce. Curiosamente, così messo, Corenti sembrava un coniglio con le orecchie abbassate.
Dormiva abbandonato, compagno solo di se stesso.
Fummo svegliati dal rumore del vento fattosi di nuovo forte. Ma la tempesta la prendemmo dall'ostessa che s'era svegliata nervosa e ci mise alla porta con modi sgarbati dopo aver preso il dovuto dalle mani ritrose di Corenti.
"Ma che ha?" chiese Sulpa.
Secondo Corenti non eravamo stati un granché e la signora non si era scaldata a dovere.
Allora Sulpa ricordò che aveva i suoi anni, che da bambino non era stato mai veramente in salute, che bisognava considerare le infamie patite in guerra e le ingiurie dei lavori nei campi.
Trovammo giusto ogni suo ragionamento. Del resto, le cose che valevano per lui valevano anche per noi.
Giurammo seduta stante di non mettere mai più piede in quella locanda. Con l'animo rinforzato da una decisione che in fondo non ci costava nulla, riprendemmo la strada che ci avrebbe portato lontano alla ricerca di uomini da portare nei tuoi campi.

17 settembre 2009

Al Sultano Cheelì - 5

Il sogno

E tu mi chiederai quanto è vero il sogno. E a me piacerebbe poterne censire una parte almeno, per vedere quante volte la tua immagine è compagna delle notti dei tuoi sudditi.
Perché tu stesso hai scelto me, nel sogno, per tua compagnia in un lungo e quieto passeggiare fatto assieme in un giardino mirabilmente ordinato di viottoli e siepi.
C'era un'aria sottile come di prima mattina che illuminava l'ordine del mondo, la giustezza di ogni ramo, l'esattezza di ogni sasso che tu hai voluto appoggiare sulla terra.
Tu eri vicino a me silenzioso, ed ecco che siamo al termine del giardino. Ci fermiamo in un ampio belvedere cintato di statue. Ci sediamo vicini e io mi perdo subito nella mia malinconia. Ti rifaccio il racconto di quello che ho scritto: dell'inverno senza piogge, delle viti ballerine e storte, della terra aperta e senza frutti, le stalle ancora tutte da riparare.
E più parlavo più sentivo che ero preda di un'ansia che non conosceva nessun bene.
Cercavo di non piangere ma non devo esserci riuscito del tutto perché tu mi hai detto: "Non è con quest'acqua che rifiorirai" e mi hai messo la mano sulla gamba. Seppi così cosa vuol dire, alla mia età, avere ancora un padre. E mi hai mostrato col dito cosa c'era oltre la balaustra.
Allora vidi il grande azzurro e le vele turcomanne che l'infiorano d'ogni colore.
Poi, tutti e due facemmo merenda.

Al Sultano Cheelì - 4

Alla locanda del Monco

Preso dall'entusiasmo di questi due bevitori canterini che non mi lasciano parlare e non si lasciano rimproverare, decidiamo su due piedi di festeggiare l'incontro. Allora si torna tutti assieme alla locanda per bere.
Ce n'è, lungo tutte le strade che portano al cuore della tua grandezza, o Sultano, un gran numero. Ma questa locanda, detta del Monco, non è certo tra le più degne d'essere menzionata. Ha piccola la porta di ingresso, piccoli sono i due ambienti che ospitano viandanti e pastori di passaggio. L'interno è sempre avvolto nell'oscurità per via delle ridotte dimensioni delle finestre che danno sulla via principale. Eppure...
Sulpa conosce l'ostessa, una certa Gagliova con due gambe tonde tonde ed un petto, buondìo, che ci potresti fare l'alba dentro e non riuscire a vedere il sole che sorge.
Questa Gagliova è una buona donna. Ha sempre lavorato sodo, mio Sultano, e ha sempre versato la tassa di mescita e distillazione così come tu hai imposto. Lei mi conosce perché sono io che riscuoto i tributi in questa parte dell'isola. Quando mi vede è sempre contenta, perché in me vede qualcosa di te, mio giusto ed onorato signore.
Ci mettiamo seduti ad uno dei tavoli e Sulpa già mesce acquavite nei bicchierini. Fatto ancora più allegro dalla bevanda, Corenti si mette a toccare il sedere all'ostessa che ha due seni che ci potresti far notte dentro senza accorgerti di quando è mezzogiorno.
Gagliova, da brava padrona, ci sta. Lei sa bene cosa fa venire sete agli uomini. E noi ci diamo da fare anche troppo.
Sulpa è fuori di sé dalla felicità. Dice di non sentire i suoi anni, dice anche che le guerre e i giorni di carestia nulla gli hanno tolto, ma l'hanno solo temprato. Quando attacca col suo racconto della guerra delle Due Riviere, io oramai non lo ascolto e non lo sento più.
Dopo diversi bicchierini eravamo tutti e tre sotto le pesanti ali protettrici dell'ostessa. Sulpa s'era attaccato al capezzolo di destra e immaginava di succhiare ancora il suo ovetto di gallina e ciucciava di buona lena. Corenti si dava da fare dall'altro lato e titillava il capezzolo di sinistra facendolo allungare a dismisura. Era felice e credeva di aver ritrovato un coniglietto che nell'infanzia gli era stato carissimo compagno di giochi.
Io, mio Sultano, stavo con la nuca appoggiata tra quei due guanciali e guardavo il soffitto. Meditavo sul tuo buongoverno, pensavo al rispetto che il popolo ti porta e a quanto tu stesso ne mostri a lui, senza nulla tralasciare nella cura del suo bene. Poi, mi sono girato da un lato fissando la mazza con il tuo stenda­rdo e sono caduto nel sonno profondo del desiderio soddisfatto e del vino finito.

7 settembre 2009

Al Sultano Cheelì - 3

In cerca di Corenti

Dopo i soliti convenevoli dei saluti che sembrano scuse, del dove vai e del come stai, del cosa fai e del come mai, gli esposi il mio problema. Disse chiaramente di non poter lavorare lui stesso nei campi, ma che avrebbe certamente potuto accompagnarmi alla ricerca di validi uomini di fatica.
Fu contento di potermi aiutare e così subito uscimmo di casa: io con passo baldanzoso e rincuorato, Silpa spingendo a tutta forza le grandi ruote della sua carrozzina ortopedica.
Quando fummo arrivati al portone della casa di Corenti, Sulpa rimase ai piedi della scalinata che si inerpica nell'androne buio. Andai su.
Busso una volta, busso tre volte e nessuno risponde. Strano, penso tra me e me, a quest'ora di solito Corenti è alla locanda, come mai non apre? Allora decido di andare a vedere se per caso è in piazza o alla locanda, non si sa mai...
Ma quale non fu la mia sorpresa nel vedere che Sulpa non mi aveva aspettato! Raggiungo la piazza ma non c'è nessuno, solo la piazza spazzata dal vento del primo mattino, carte che volano un po' dappertutto e fanno tristezza. Fogli che vanno nel vento e non hanno intorno nessuno. Perdo tempo tra vicoli e strade che alle fine sboccano tutti nella stessa piazza. Qui giro lo sguardo intorno e vedo la sedia di Sulpa che taglia la piazza da una parte all'altra spinta dal vento di gran carriera. E vedo bene che Sulpa non è sulla sedia.
Mi metto a correre per agguantare quello strumento che pare mosso da un istinto infernale e sta per infilarsi un una via secondaria.
La sedia avanti e io dietro, mio Sultano, che non sono più l'agile ragazzo che fui, benché per poco tempo, un tempo. Faccio fatica a starle dietro, e come una indiavolata ha imboccato una discesa e io ho paura, paura di cadere e di rompermi l'osso del collo e finire per sempre seduto su un attrezzo che rotola malinconico sulla terra.
Questo pensiero mi taglia il fiato e allora mi fermo. Non appena il mare dell'affanno ha finito di uscirmi dal naso con tutto il suo fragore, comincio a sentire i suoni del mondo. Prima quello del vento, poi come il botto di qualcosa di legno che si fracassi su pietre (e capisco che pure la sedia è arrivata al suo buon fine) poi la voce di qualcuno si è messo a cantare. Infatti, a squarciagola, con l'impudente felicità degli ubriachi, Sulpa e Corenti vengono fuori abbracciati, che non si sa chi regga chi. Per un attimo tutto il vicolo è una cantina. Il vento sa solo di alito caldo e di vino.
E' bello sentire le voci degli uomini quando per troppo tempo si è solo ascoltato il vento che fischia negli strumenti dei vicoli stretti, dei fili tirati tra casa e casa, nelle mille bocche delle tegole sopra i tetti.
“Crepa!” mi dice Sulpa appena mi vede. E lo dice perché sono sorpreso che sappia star ritto all'impiedi da solo.
In effetti la sedia era di Silpa…

Al Sultano Cheelì - 2

Silpa e Sulpa

Dico questo, mio Sultano, sperando che tu non rida di me e non chiuda qui la lettura di questo resoconto credendomi pazzo.
Ma quello che affermo il tempo lo giustificherà.
Ecco – mi ero detto – solo questi tre uomini potranno aiutarmi. Mi metto di buon mattino la giubba pesante, la zappa – come sai – è sempre dietro la porta, faccio appendere il vessillo con lo stemma della tua famiglia onorata a un bastone che uso per andare a funghi e, così preparato, vado finalmente alla casa di Silpa, certo di trovarlo dove sempre è, accanto al camino fumante, con la pipa fumante in una mano e la tazza di tè bollente nell'altra, avvolto da spire di vapore e fumo che lo fanno sembrare un fantasma.
E infatti così è, lui è lì. Ma la pipa è spenta, il caminetto senza carboni ardenti è un buco nero di tristezza al centro della stanza e la tazza da tè è lì senza riccioli e sbuffi.
E non c'è neanche Silpa, perdìo! Perché Silpa – me ne ero scordato – è morto tre anni fa quando scambiammo i sacchi del tè per sacchi di tabacco. Fu una vera disgrazia, Sultano, che noi commettessimo un simile errore proprio con ciò che tu, con noi tanto buono e magnanimo, volesti donarci in quella occasione.
Non che non ci fossimo accorti dell'errore. Ma Silpa continuava a bere tabacco e a fumare amarissimo tè, dicendo che se il Sultano aveva disposto così, così si doveva fare. E ne fu orgoglioso, mio Signore, e di questa obbedienza era così fiero che fu impossibile farlo smettere. Ma ne morì in capo a sei mesi ed io non ti avrei fatto perdere tempo con questa lunga e triste storia se non fosse che tu prenderai questo piccolo apologo come metro e misura dell'affetto dei tuoi sudditi lontani.
Lontani, ma più fedeli di certi a te tanto vicini. Del resto, non brilla forse la luce del sole sulle vette distanti e solitarie prima che nel fondo delle valli dove sono le popolose città? E non sei tu quella luce che fa alte le cose?
Non sei tu? Non sei tu?
Di certo non era Silpa quello che io mi trovavo davanti. Lo vedevo vivo sulla seggiola, ma non era lui, né era un fantasma quello che succhiava avidamente un ovetto di gallina che teneva attaccato alle labbra.
Ma non potetti desistere dal dire: "Non sei tu, Silpa?". E mentre lo dicevo, proprio mentre le parole uscivano dal pensiero prendendo la via dell'aria, ricordai. Ricordai all'improvviso il funerale di Silpa.
Quello, seccato dalla sciocca domanda e anche più dall'uovo finito, mi disse: "Sono Sulpa, il fratello di Silpa".
Era vero, era Sulpa il gemello. Capitava che Silpa ne parlasse qualche volta, come per vantarsi di essere due volte sulla terra, ma più spesso con il tono di uno a cui manca qualcosa.
Diceva infatti: "Se ci fosse Sulpa, le cose andrebbero diversamente!". E si toccava la punta del naso arrossato dal tè con la punta della pipa in cui bruciava - credeva lui - un tabacco amarissimo.
Questo Sulpa è in tutto e per tutto uguale al fratello, che Dio l'abbia in gloria, solo che questo respira e non fuma, e se beve qualcosa beve solo acquavite e del tè dice peste e corna, perché è fatto con l'acqua che lui detesta.
Fui contento di rivederlo lì. Erano anni che non ritornava al villaggio ed io m'ero quasi scordato di lui, benché ogni volta che vedessi Silpa mi sembrava di ricordare una persona che gli somigliava.

11 agosto 2009

Al Sultano Cheelì -1

Mio amatissimo Sultano

Mio amatissimo Sultano,
in qualità di custode di questa provincia che tutta vi appartiene, vi mando il resoconto dei fatti più importanti occorsi al popolo e alle cose che vi devono obbedienza e che vi offrono la loro devozione e il loro profitto.
Salute e prosperità, mio Sultano!
Il governatorato di Colanskij, come già vi è noto, ha avuto quest'anno un mite inverno che non se ne vedeva uno di tal fatta da tempo immemorabile.
Interrogati da me, alcuni anziani dei villaggi giurano che dai tempi del Sultano Agonij non si vedeva una cosa del genere e che, essendo stati quelli tempi di grandi ricchezze e pace duratura, senza dubbio saranno così anche i tempi a venire.
Questo l'auspicio tratto dagli anziani che qui comunico perché possiate trarne augurio e affinché vi renda chiaro in che modo tutti qui collegano il vostro nome a quanto di maggior bene possa esserci al mondo.
Mio amatissimo Sultano, purtroppo devo qui aggiungere ai fiori del futuro le note del presente e dirvi che le vostre vigne hanno molto patito la gran secchezza della stagione e che le gemme ora sono stenterelle a farsi largo sui legni più vecchi, come che questi fossero stati più rapidamente induriti dalla mancanza di acque.
In alcuni punti le viti non mostrano alcun segno di attività. Cadute in un sonno profondo ma non morte, stanno con quella loro aria un po' perplessa e un poco sofferente sotto questo sole che non le ignora.
Anzi, sembra cercarle a bella posta e su di esse più volentieri distendersi, essendo tutte disposte nella posizione a lui più favorevole. Fu il Sultano vostro nonno a volerle piantate sulla via più soleggiata. E ciò fece a ragion veduta, che sempre hanno prosperato con frutti dolci e forti a un tempo. come bene sapete, se è vero che sulla vostra tavola sempre un vino di Colanskji è tra quelli serviti.
Ma pare che quest'anno ciò non giovi né a loro che ne patiscono, né a me cui con molto onore furono affidate in custodia ed ora ve ne devo dare un così triste resoconto e ragione.
E' la terra, mio Sultano, la terra che non vuole più nutrirle e il sole che non vuole più lasciarle!
A causa del gran secco le zolle hanno cominciato a ritirarsi dai fusti, dove prima si è indurirta e poi spaccata. I fusti non sono così saldi al terreno come un tempo. E per quanto ciascuno di essi sia saldamente legato da salici al suo palo, ora a toccarli dondolano avanti e indietro come giovani ballerini scatenati in una danza scomposta che non rallegra a vedersi.
Ma pare che questo strano carattere dell'ultimo inverno non abbia solo scosso le radici dei nostri vigneti.
Credi a me, mio Sultano, quando dico che molte volte si è stentato a trovare qualcuno dei nostri uomini per fare i lavori nelle tue stalle. Tu sai che il nostro governatorato non ha mai avuto problemi con i contadini. Il solo tuo nome li ha sempre spinti a dare il meglio di sé. Il rispetto devoto che essi ti portano è leggendario, lo sai. Sai anche che da Iruk stessa molte volte i fattori sono venuti fin qui per cercare manodopera, per quanto Iruk sia città popolosa in cui non mancano forti e giovani lavoratori.
Tuttavia, Signore, per via della mitezza stessa dell'aria pare che stavolta gli uomini abbiano dimenticato le loro migliori qualità, lasciandosi andare più ai piaceri offerti dalle donne che a quelli di un lavoro portato a termine.
E' vero che i contadini si sono spesso spostati in gruppi numerosi ed entusiasti verso Iruk. Sciami verso il dolce e segreto favo, se ne andavano all'imbrunire verso al città per far ritorno solo dopo giorni. Certamente felici ma inabili alle opere.
Iruk è città di onesti cittadini, ma le sue strade sono troppo piene di case amorose e tanto a buon mercato che chiunque può concedersi un giorno e una notte di piacere per pochi gaslìm.
Così, quando sarebbe stato necessario deviare un corso d'acqua lì lì per perdersi, o costruire una cisterna, non era possibile trovare chi lo facesse.
Non pensare che io abbia rinunciato alla soluzione di questi problemi fermandomi alla prima difficoltà. Ho fatto quello che ho potuto e tu stesso potrai giudicare se qualcosa è stata trascurata. In tal caso, mio amatissimo Sultano, cada la tua giusta e facile punizione su di me, lascia a Dio solo la fatica della clemenza.
Dunque, non potendo fare affidamento sugli uomini più giovani, ho chiesto aiuto dove potevo.
Tu sai che Machili e Fiodj sono troppi vecchi per alcunché. Machili poi ha perso una gamba proprio l'anno scorso durante lo spostamento del mulino quando la pietra della macina cadde dal traliccio che la sorreggeva. Allora, e che terribile giorno fu quello, avemmo anche due morti: Achì Russù, di anni 20 e Sed Alì suo padre, in età di 37. Tutti e due molto validi anche se uno aveva perso la mano destra giorni prima mentre cercava di sollevare la pietra della macina centrale e l'altro avesse ormai perduto l'udito perché punto in testa da qualche insetto mentre dormiva nei campi di erba medica. Ecco perché non si accorse della grande pietra che rotolava alle sue spalle. Sventurato, a nulla valsero anche le nostre grida di pericolo imminente.
Non ho ritenuto di chiedere aiuto al povero Andrei. Conosci la sua storia disgraziata. Da quando gli è crollato il tetto della casa per il forte vento dell'estate di due anni fa, pare essere poco sano di mente. Va in giro a chiedere a chi incontra, se per caso hanno visto il suo tetto posato sulla cima di un albero. Qualunque sia la risposta, egli chiede dove sia l'albero e quanto alto e quanti frutti ci siano sopra e se sopra ai frutti non ci sia per caso il suo tetto. E va così, in un giro di domande che non ascoltano risposte, sempre mordendosi la coda, per così dire.
Come vedi, mio Signore, la cosa è più difficile di quanto sembri, perché anche a voler fare un lavoro da niente, bisognerebbe prima risolvere i cento problemi di chi dovrebbe aiutarti.
Non ho potuto far altro che bussare alle porte di Silpa, Corenti e Maggiorenti. Dei primi due avrai certo nota la storia, sono i due falegnami che diedero al lavoro molto del loro tempo e nove dita in due.

29 luglio 2009

Bandiera

.
cercavo le parole che fossero alle cose
come una bandiera a mezza strada
che dice di accostare. Lo stile -
perdonate - solo forma
solo l'ombra di un presagio.

(2001)

Partiti

.
ah dover partire proprio adesso,
ora che il tempo si è rimesso al bello
come sa lui nella sua sfida.

E ci sono quelle nuvole di ciel sereno
come le chiami, quando le vedi
miti di luce, bianche appena.

(1999)

Ascensore

.
Chi parte per primo fa un cenno
e un odore diverso si dà sulla stessa tastiera
se sale o scende altra gente, altro piano.
Lo specchio si appanna ogni volta
per l'aria che ognuno ha nel petto
ogni volta in custodia.

L'albero

.
Negli ultimi giorni, quando ancora è verde
l'abero è qui
veramente sulla terra.

Io smetto di sognarlo e vedo
che mi appartiene per intero.

Rima

.
come una cosa che prima sembrava non viva
stanno lì, la cosa e la rima,
simili unite in poesia

La vigna

.
Il fronte del maltempo è nei pensieri
un grumo di giornate dietro i vetri.

Lo stormo di preghiere se ne resta
senza pali e senza grappoli.

(1995)

Costa

.
siamo anche noi una delle luci
che appaiono come punti sulla costa
dove brilla combusta una speranza
fino a lontano.
E sopra tutto il mare vedi
il nostro bene dove sta.

(1995)

Piccola preghiera del padre

.
Fammi rinascere almeno nel nome
quella coda di vita distinta
che ci affida come lucertole
alla luce di un sole nuovo.

La rosa

.
con l'erba così alta che ci cresce
non ti vedremo neanche più, lo sai,
né a noi riparlerà quel tuo colore
che ti ha lasciato, rosa,
che sei rimasta fiore

1987

27 giugno 2009

Letteratura nel quadrante 15

L'Abate lo interruppe. "Bene. Come vedi il rotolo 'H' contiene diversi ordini segreti. Devono rimanere tali. Ma, in fondo, che cosa c'è di male nei segreti? Le nostre paure più profonde e le nostre speranze più ardite sono quelle che
teniamo più nascoste. Le porcherie, il tormento, la vergogna, le passioni e le gioie: tutte le cose veramente importanti della vita sono tenute ben celate. Ma la segretezza implica una percezione, che è condivisa da pochi."
L'Abate continuò: "Un segreto è una parte a parte, al di fuori della generale conoscenza. E proprio ciò che è al di fuori della generale conoscenza, è più vicino alla verità. Tutto quello che verrai a sapere in questo lavoro, rimarrà fra noi. Gli altri ne sanno ben poco. Nessuno tranne te è al corrente di tutti gli aspetti delle Ore. Se non altro, ti avrò insegnato che l'apparenza più innocente, si tratti di uomini o di orologi non fa differenza, può nascondere gli scandali più complicati." L'Abate richiuse la cassa con un colpo secco.

***KURTZWEIL ALLEN, La scatola dell'inventore, pag.89, Bompiani

Letteratura nel quadrante 14

Chi passa la notte sveglio nel letto a Sarajevo, può udire le voci della sua oscurità. Pesantemente e inesorabilmente batte l'ora sulla cattedrale cattolica: due dopo la mezzanotte. Passa più di un minuto (esattamente, ho contato, settantacinque secondi) e solo allora si annuncia, con un suono più debole, ma acuto l'orologio della chiesa ortodossa che batte anch'esso le sue due ore. Poco dopo si avverte con un suono rauco e lontano la Torre dell'orologio della Moschea del bey, che batte le undici, undici ore degli spiriti turchi, in base a uno strano calcolo dei mondi lontani e stranieri. Gli ebrei non hanno un loro orologio che batte le ore, il
dio malvagio è l'unico a sapere che ore sono in quel momento da loro, quante in base al calcolo sefardita, quante secondo il calcolo degli askenazi. Così anche di
notte, mentre tutto dorme, nel conto delle ore vuote del tempo veglia la differenza che divide questa gente assopita che da desta gioisce e soffre, che si nutre o digiuna in base a quattro calendari diversi, ostili fra loro, e che rivolge
tutte le sue preghiere allo stesso cielo in quattro diverse lingue ecclesiali. E questa differenza, talvolta visibilmente e apertamente, talvolta in maniera sotterranea e subdola, è sempre simile all'odio, col quale spesso si identifica.

***ANDRIC IVO, Lettera del 1920, in "Racconti di Sarajevo", pag.33,
Newton Compton

Letteratura nel quadrante 14

Per la strada mi ha detto monsieur Auzout che il re ha mandato sulla flotta due orioli col pendolo fatti per la longitudine, i quali per sottrarre dal ricevere l'impressioni del comun movimento della nave, sono appesi ad una forte snodatura di metallo, nel muovere la quale s'estingue una gran parte dell'impeto; e son collocati in una pesante custodia di ferro, se non mi sbaglio, per farli ancora più retinenti
al moto. Ancora non se ne sa la riuscita. Mi ha detto inoltre che un oriolaio, dal quale mi condusse, ha fatto un oriolo col pendolo che si muove per la circonferenza
d'un ovato. L'invenzione è dell'Huygens, o almeno egli la pretende.

***LORENZO MAGALOTTI. Diario di Francia dell'anno 1668, pag.64

Letteratura nel quadrante 13

Il presidio era l'estremo rifugio di chi non voleva assolutamente andare alla guerra. Io ho conosciuto un professore supplente che prestava servizio nella sua qualità di matematico, e che nell'arma di artiglieria rubò l'orologio a un
tenente per poter stare al sicuro nel carcere presidiario. Egli aveva agito così dopo una matura riflessione, perché la guerra non lo attirava né lo entusiasmava. Sparare sui nemici e uccidere dall'altra parte, a forza di spolette e granate, dei supplenti di matematica altrettanto disgraziati di lui, gli sembrava una bela sciocchezza.
"Io non voglio farmi odiare per la mia brutalità," s'era detto, ed aveva eseguito freddamente il furto dell'orologio.
Dapprima esaminarono il suo stato mentale, ma quando ebbe dichiarato che l'aveva fatto per arricchirsi, lo rinchiusero nel carcere presidiario.

***JAROSLAV HASEK, Il buon soldato Sc'veik, pag 90



3

Letteratura nel quadrante 12

Quando si trovaron di fronte, a metà della seconda branca di scala, il segretario di fermò, levandosi il cappello, e invece di guardar la Pedani, vinto dalla timidezza, guardò, come faceva sempre, la sua compagna; la quale, anche questa volta, credette d'esser lei la cagione del suo turbamento, e lo incoraggiò con un sorriso amorevole. E tennero uno dei soliti dialoghetti stupidi di quelle occasioni.
-Così presto vanno alla scuola?- balbettò lui.
-Non è tanto presto,- rispose con voce dolce la maestra Zibelli;- sonoa momenti le otto e tre quarti.
-Credevo... le otto e mezzo.
-I nostri orologi vanno meglio del suo.
-Può darsi. C'è una nebbia questa mattina!

***EDMONDO DE AMICIS, Amore e ginnastica, pag.4

Letteratura nel quadrante 11

Guardai l'orologio. Sorprendente: ad eccezione di quando parlo con lei, io non ho mai veduto il suo sguardo puntar su di me, e cionondimeno lei riesce a vedere ogni mio movimento.-" Ah,ma guarda che orologio rosa che ha!"- Mi offese assai che si potesse trovar rosa il mio orologio Bréguet, mi parve una cosa altrettanto offensiva che se mi si fosse detto che il mio gilet è rosa. E dovetti rimanerne palesemente
confuso, giacché quando dissi che anzi era un orologio molto bello, lei si confuse a sua volta.- Si vede che le dispiacque d'aver detto una cosa che mi aveva messo
in una situazione imbarazzante. Entrambi capimmo che tutto ciò era buffo, e sorridemmo. E' stato molto piacevole per me, sentirmi confuso e al contempo sorridere. Va da sé che erano due sciocchezze, ma avvennero proprio così,
contemporaneamente.- Io li amo, questi rapporti misteriosi che s'esprimono in un sorriso innavvertito e nello sguardo, e che non si possono spiegare.


***LEV TOLSTOJ, Storia della giornata di ieri, pag.8 Meridiani

Letteratura nel quadrante 10

A metà strada mi capitò per caso di dare uno sguardo al mio vecchio cronometro d'argento, ricordi dei giorni del Boreal... Come posso ancora perdere la testa per un nonnulla, per un nulla, santo cielo, veramente non capisco! Solo perché le lancette, per pura coincidenza, segnavano le tre e dieci, ossia il momento in cui tutti gli orologi di Londra si erano fermati- perché ogni città ha le sue mille fantasmagoriche dita, ancora puntate sul momento della sciagura- le 3.10, a Londra, una domenica pomeriggio. Me ne ero accorto la prima volta mentre risalivo il fiume, guardando il quadrante del <>, e adesso scopro che tutti gli orologi,
tutti hanno questa mania delle 3.10, di segnare ancora l'ora... della fine del Tempo; di indicare per sempre eternamente quell'unico momento: perché la nube di
scorie polverulente avrà fermato immediatamente il loro meccanismo, facendoli sprofondare nel silenzio assieme agli uomini; ma nel loro insistere in quel minuto determinato avevo trovato qualcosa di solenne, eppure solenne per burla, ironico, e in un certo senso come rivolto a me, che quando il mio orologio ebbe l'insolenza di segnare la stessa ora, mi prese uno di quei parossismi d'affanno, metà per la
rabbia, metà per l'orrore, che avevo ormai quasi dimenticato, da quando ho lasciato il Boreal. Il giorno dopo, ahimè!, mi aspettava un altro di questi attacchi; e
ancora un altro il giorno susseguente.


***SHIEL M.P. La nube purpurea, Adelphi, pag 171

1 maggio 2009

Letteratura nel quadrante 9

I cinesi vedon l'ora nell'occhio dei gatti. Un giorno un missionario, mentre passeggiava nei sobborghi di Nanchino, s'accorse d'aver dimenticato l'orologio, e chiese ad un ragazzino che ora fosse.
Il monello del celeste impero stette in forse sulle prime, poi si riprese rispondendo: << Glielo dico subito>>. Poco stette, e riapparve con un gattone fra
le braccia e, guardandolo, come dir si suole, nel bianco degli occhi, affermò
senza incertezze:<< Manca poco a mezzogiorno>>. Ed era vero.
Per me s'io mi chino verso la bella Felina, la tanto ben chiamata, onor del suo sesso, orgoglio del mio cuore e insieme profumo dello spirito mio, sia notte, sia giorno, in piena luce e nell'ombra opaca, giù negli occhi adorabili io vedo sempre l'ora precisa, sempre uguale> ora vasta, solenne, grande come lo spazio, senza
divisione di minuti, né primi né secondi,- ora immobile che non segnano orologi, e pur leggiera come un sospiro, rapida come un'occhiata.
E se qualche importuno venisse a disturbarmi allor che riposo gli sguardi in cotal delizioso quadrante, se qualche Genio disonesto e intollerante, qualche demonio del contrattempo venisse a dirmi: <>. <> gli risponderei risoluto <>.
Nevvero, signora, che il madrigale è veramente meritorio, ed enfatico tanto quanto voi? In verità, mi ha mi ha dato tanto gusto il ricamo di questa pretensiosa galanteria, che non vi chiederò nulla in compenso.

CHARLES BAUDELAIRE, Lo Spleen di Parigi

Letteratura nel quadrante 8

La vera specialità della signora Marcia riguarda quel genere di automi
che chiamano orologi animati. Contrariamente agli altri automatismi o carillon celati dentro a bomboniere, pomi di bastone, scatole per pastiglie, flaconi di profumo eccetera, non si tratta generalmente di meraviglie della tecnica. Ma la loro rarità ne guida il prezzo. Mentre quelli tipo Mori di Venezia o tipo chalet svizzero con cucù eccetera sono sempre stati anche troppo diffusi, è estremamente raro trovare un orologio un po' antico, orologio da tasca, cipolla o saponetta che sia, in cui l'indicazione delle ore e dei secondi serva di pretesto a un quadro meccanico.
I primi apparsi erano in realtà solo degli automi in miniatura con uno o due personaggi di spessore trascurabile che battevano le ore su un carillon quasi piatto.
In seguito apparvero gli orologi osceni, così chiamati dagli orologiai stessi che, se accettarono di fabbricarli, rifiutarono di venderli sul posto, e cioè a Ginevra. Affidati a degli agenti della Compagnia delle Indie incaricati di smerciarli in America o in Oriente, giunsero raramente a destinazione, molto spesso furono nei porti europei, oggetto di traffico clandestino tanto intenso che, ben presto, diventò quasi impossibile procurarseli. Se ne fabbricarono non più di qualche centinaio, e i sopravvissuti sono al massimo una sessantina. Un orologiaio americano ne possiede da solo quasi i due terzi. Dalle scarse descrizioni fornite sulla sua collezione- non ha mai autorizzato nessuno a vedere e a fotografare uno solo degli orologi- risulta che i loro fabbricanti non hanno dimostrato questa gran fantasia: su trentanove dei quarantadue orologi in suo possesso, la scena rappresentata è in effetti sempre la stessa: un coito eterosessuale tra due individui appartenenti al genere umano, entrambi adulti, della medesima razza (bianca, o come anche si dice, caucasica) l'uomo è sdraiato sul ventre della donna che è supina(posizione detta "del missionario"). I secondi sono segnati da un ancheggiamento dell'uomo il cui bacino va e viene a ogni secondo, la donna indica i minuti col braccio sinistro (spalla visibile) e le ore col braccio destro (spalla nascosta). Il quarantesimo orologio è identico ai primi trentanove, ma è stato dipinto a cose fatte,trasformando la bianca in una nera. Appartenne a un negriero che si chiamava Silas Buckley. Il quarantunesimo, eseguito con una finezza molto più avanzata, raffigura Leda e il Cigno: i battiti d'ala dell'uccello ritmano ogni secondo del loro turbamento amoroso. Il quarantaduesimo che dicono appartenesse al cavalier Andrea de Nerciat, dovrebbe illustrare una scena della sua celebre opera Lalotte o il mio noviziato: un giovanotto, vestito da servetta con le vesti alzate,viene sodomizzato da un uomo il cui abito, scostandosi, fa intravedere un sesso smisuratamente grosso.

I due personaggi sono in piedi, l'uomo dietro alla cameriera che si appoggia contro lo stipite di una porta. Sfortunatamente la descrizione fornita dall'orologiaio
americano non precisa come siano segnate le ore e i secondi.

GEORGES PEREC, La vita istruzioni per l'uso

27 aprile 2009

Autobiografia

Nella foto che qui vedete riprodotta, con scarsa perizia è ritratto Maurizio Marotta. L'ingenuità del ritrattista lo ha obbligato ad assumere un atteggiamento che non gli è consono. Quell'aria di sfrontata guapperia scritta nel sopracciglio moderatamente sollevato e nel distaccato sguardo che vi sottostà, non riflettono la mitezza che fu caratteristica dell'animo suo. La pipa che regge in mano non è stata mai fumata da Marotta, e il copricapo dalla curiosa foggia è solo un oggetto pescato lì per lì nello studio fotografico.
Marotta, in realtà, non ha mai indossato cappelli o berretti, neanche durante il servizio militare (che non ha prestato).

Infine, il fatto che indossi un kilt potrebbe far pensare a remote ascendenze nordeuropee. Ma ciò non è affatto vero. Anche in questo caso la presunzione artistica di chi ha scattato la foto ha fatto scempio della verità per creare intorno al soggetto un'aura falsa e pure scarsamente verosimile.
Comunque non condivisibile da chi ha avuto moto di entrare in confidenza col Marotta o ne ha semplicemente potuto fare la conoscenza.

Tutta la sua esistenza si è consumata all'insegna del fraintendimento.
E ciò era drammaticamente vero sin dall'inizio, allorchè sua madre voleva per forza chiamarlo Mariastella. Mille e più sarebbero gli episodi a suffragio di questo curioso destino. Il Marotta stesso se ne doleva facendo accenno a quelli che chiamò "i piccoli scarti": deviazioni millimetriche dalla verità che finivano per distruggere ogni slancio verso la serietà, la profondità, il buonsenso addirittura..
In una intervista rilasciata poco prima che si perdessero le sue tracce, egli disse: "E' orribile come l'intensità del dramma mi abbia proditoriamente evitato, scansato e scartato per tutta la vita."
Non possiamo dare qui conto di tutta la sequela dei fatti e dei minimi accadimenti che si riferiscono al "fraintendimento", ma ne citeremo soltanto qualcuno a titolo di esempio.
Nel 1989, presso le edizioni Barbablù di Siena, Marotta pubblica un di una trentina di poesie dal titolo "I cappotti morti". Attilio Lolini, esimio animatore della benemerita serie di libretti, scriverà l'unica recensione dedicata al volume facendo riferimento al testo "I cappotti Corti". Quello che doveva essere un esordio letterario autentico, si trasforma in un libro dedicato al farfallonesco mondo della moda...
In aggiunta, in quarta di copertina il libro viene identificato come un supplemento alla rivista "Il gallo silvestre", famosa operetta leopardiana. Il Marotta era felice di poter iniziare la sua avventura di poeta edito sotto l'insegna di cotanto nume tutelare. Purtroppo, per un banale errore di stampa, fu scritto "supplemento al numero 1 de Il Gallo Silvestro", con evidente richiamo fonico al cartone animato del gatto domestico perennemente irretito dalla petulanza dell'uccellino Titti.
Erano piccoli segni - diceva il nostro - che gli logoravano i nervi. Egli stesso notava come il destino si divertisse, con ridanciana intelligenza non c'è che dire, a nascondere gli scarti dalla verità in piccole pieghe, in anfratti, nel piccolo corpo tipografico delle quarte di copertina, appunto.

Nel 1991 viene pubblicato il Primo Quaderno italiano di poesia. Tra i quattro poetini del secondo novecento che lì trovano spazio, Marotta pubblica la raccoltina "Il cielo dai balconi", poi passata alla storia come "Il cieco sui balconi". Quasi una poetica trasposizione de "La gatta sul tetto che scotta".
Diverse le pubblicazioni in rivista: Lengua, La collina, Cenacoli esoterici. Qualche saggetto pseudo-critico su un poetino di nome Franco Ferrara. Sul poeta-poeta Sandro Penna e poco altro ancora.

Abile nell'uso della lingua, precoce talento poetico, indicato come degno epigono di Alfonso Gatto (poeta-poeta originario di Salerno come il Marotta, ma che il Marotta non ha mai letto), Maurizio Marotta consegue la laurea in lettere moderne presso l'Università di Urbino nel 1987, lascia le Marche e fa ritorno a Salerno dove vanta la diretta conoscenza di famosi critici e poeti.
Nella desolata vita della provincia normanno-meridionale, il nostro affascina gli amici nei racconti del bar. Intere notti trascorrono nella magnifica prova di affabulazione e stordimento degli ascoltatori che più che essere cultori delle lettere sono degli ingenuotti.
E' a Salerno (nella cui provincia nacque intorno al 1963) che egli si conquista la fama di poeta in esilio, dicendo che il Comune di Pesaro-Urbino ha bandito lui e la sua progenie dai suoi territori per i secoli dei secoli.
Dante era un dilettante.
Nel frattempo si dedica alla grafica al computer, essendosi accorto che la vena poetica è tanto rapida a venire quanto lesta ad andarsene (un altro fraintendimento?).
Compone disegnini che vengono messi in rete qua e là, ma nessuno se ne accorge (come capita a tutto ciò che è sulla rete).
Passa alla prosa. Compone racconti di varia natura e lunghezza. Non pubblica nulla nonostante le reiterate richieste dell'editoria nazionale e l'esortazione di amici che ritengono di avere a che fare con una buona penna (che si ciba prevalentemente di altri formati).
Per il Teatro dei Piccoli Principi di Firenze scrive il testo "12", una scena teatrale dedicata ai ragazzini. Il testo riscuote un enorme successo. E' tradotto in francese e in fiammingo dopo essere stato tradotto in italiano da un suo amico.

Prima che di lui si perdesse ogni segno di presenza, Marotta stava lavorando a due romanzi: una riscrittura de "Il Cortegiano" di Baldassarre Castiglione, e "Al sultano Cheelì" romanzo epistolare e picaresco.
Tuttavia, ancora oggi, si ritiene che il suo capolavoro sia "Il senso è un imprevedibile volo di mosca", raccolta di brevi prosette che hanno per protagonisti il pittore quattrocentesco Berruguete, Piero il fornaio e il mondo assolato dei cani, più alcune mongolfiere.
A quest'opera ha prestato il suo ingegno grafico anche Oreste Zevola, illustratore napoletano.

Poche sono le altre notizie di interesse pubblico di questo autore prematuramente datosi per disperso. Egli trascorse gli ultimi giorni ad Ercolano dove partorì insieme alla moglie un bambino biondo e bellissimo che non somigliava a suo padre.
La sua casa, lontana dalla zona degli scavi, ma inclusa in quella dei moderni disastri e rovine, è attualmente sede del Museo Provinciale della Provola affumicata.

La foto che lo ritrae e che qui si pubblica è un autoscatto.

22 aprile 2009

Letteratura nel quadrante 7

Era mattina molto presto, le strade erano pulite e deserte, io andavo alla stazione. Quando confrontai l'orologio di un campanile con il mio orologio, vidi che era molto più tardi di quanto avessi creduto, dovevo fare molto in fretta, lo sgomento per questa scoperta mi rese incerto circa la strada da prendere, non ero ancora molto pratico di quella città, per fortuna lì vicino c'era un vigile, corsi verso di lui e,
senza fiato, gli chiesi la strada. Egli sorrise e disse:
"Da me vuoi sapere la strada?"
"Sì", dissi io, "perché da solo non riesco a trovarla".
"Arrenditi,arrenditi", disse lui, e si volse con gran slancio, come fa chi vuole essere solo con la propria risata.

FRANZ KAFKA, Schizzi, parabole, Mursia

Letteratura nel quadrante 6

Dal taschino destro pendeva una pesante catena d'argento con appesa una macchina straordinaria. Gli facemmo cenno di estrarre quello che stava attaccato al capo della catena: si trattava di un globo per metà d'argento e per metà di un metallo trasparente attraverso il quale si potevano vedere strane figure disposte in cerchio. Pensavamo di poterle toccare, ma le nostre dita non andarono oltre quella
materia traslucida. Ci mise agli orecchi quella macchina che faceva un rumore incessante, come quello di un mulino.
Pensiamo che si tratti di qualche bestia sconosciuta del dio che lui adora, siamo anzi favorevoli a questa seconda ipotesi, perché ci assicurò (se abbiamo capito bene quel che ci disse, dal momento che si esprimeva in maniera assai scorretta) che
raramente intraprendeva qualche azione senza prima averlo consultato. L'ha definito il suo oracolo, dicendo che gli indicava il momento idoneo ad ogni azione.

JONATHAN SWIFT, I viaggi di Gulliver

Letteratura nel quadrante 5

Montag scosse il capo. Guardò una parete nuda. Vi era il volto della ragazzina, davvero molto bello, nel ricordo: sbalorditivo, anzi. Ella aveva una faccia sottile come il quadrante di un piccolo orologio visto vagamente in una camera buia nel cuor della notte, quando ci si sveglia per guardare l'ora e si vede l'orologio che ci dice l'ora, il minuto, il secondo, con un silenzio bianco, incandescente, tutto certezza e consapevolezza di ciò che ha da dirci della notte che sta passando rapida oltre, verso ulteriori tenebre, ma anche verso un nuovo sole.

RAY BRADBURY, Fahrenheit 451, pag.18

18 aprile 2009

La rimessa

Ho visto per l'ultima volta le spalle di mio padre in una sera di dicembre. E' stata quella volta lì che mi sono accorto di quanto fossero belle, larghe e forti come le hanno certe volte i ragazzi sugli scogli, un attimo prima di tuffarsi. Notai solo allora quanto spazio prendessero nel vano delle nostre porte e nella nostra vita.
Mio padre non ha mai amato uscire di casa la sera, né le combriccole lavorative vere solo per cene e cenette qua e là, dicendo sempre a tutti di no.
Ha avuto, all'opposto, una sorta di vocazione preistorica a starsene a cuccia appena buio; un poco cercando riparo, un poco per fare il guardiano e vegliare.
Veramente non ricordo bene come fu che cominciò ad andarsene, frettoloso e avvolto dal segreto, quasi ad ogni dopocena. Le scuse cambiavano alle domande di mia madre e una volta era la macchina da spostare, una volta la rimessa da mettere in ordine, un'altra ancora la ricerca di un arnese in giardino che avrebbe prestato, domani, a un amico.
In principio non ci facemmo caso perché queste uscite erano così episodiche che non riuscivano a legarsi l'una all'altra per mettere insieme la forma consistente di un sospetto.
Furono invece l'inclemenza del tempo e la neve straordinariamente abbondante a far prendere corpo alla nostra preoccupazione. Per quanto l'aria di dicembre fosse gelida e come abitata dalle spine, mio padre senza timore si avventurava fuori ad ogni ora.
Io e mia madre restavamo a pulire i vetri della cucina e a spiare fuori, mentre mio fratello che le stava tra le braccia teneva già gli occhi chiusi nel sonno. Da lì vedevamo chiaramente che nessuno era entrato dal cancello né che mio padre ne usciva. Lo scoprivamo invece voltare a sinistra verso la rimessa e sparire dietro la fila dei meli.
A mia madre bastava. Il fatto che suo marito fosse inequivocabilmente solo, ancora nel territorio della casa, era per lei come una consolazione, un parziale risarcimento a quell'angoscia di essere tradita che di certo le aveva attraversato i pensieri.
Non era così, per me. Ho pensato più volte alle sere che avrei voluto seguirlo, andare a spiare perché, tutto ad un tratto, mio padre sentisse il bisogno di andarsene via da noi.
La rimessa, da sempre, è dove le macerie acquistano solidità e resistenza. Lì dentro ho spiato mio padre. L'ho guardato stando chiuso nel mio cappotto, nel gelo di un dicembre inclemente e sfrontato.
Li ho visti tutti e due, lui e quel suo amico, guardando dal finestrino nella rimessa. Mio padre senza camicia, seduto, di spalle. L'altro, invece, non si era tolto nemmeno la giacca. Gli vedevo la nuca spuntare
dal bavero e i capelli bianchissimi tirati all'indietro. Ma non era un vecchio e questo mi sorprese. Era uno della mia stessa età, più o meno venti, venticinque anni.
Così, ho poggiato l'orecchio sul vetro gelato e ho sentito la voce paterna venire dal freddo.
Lui gli chiedeva:" Anche i miei figli, anche loro lo sai, pure mia moglie... Credo di avergli dato quello che avevo, ma un po' di allegria loro non me l'hanno mai data, non me l'hanno ancora restituita... Se sono felici lo sono sempre da soli, per conto loro. E poi, lo vedi anche tu, adesso ho i gerani tutti bruciati dal gelo. Ma hanno stentato sin dal principio quest'anno. Eppure gli ho messo tutto: la terra, la torba, il pietrisco. Neanche l'acqua gli è mai mancata... Che dici, che cosa sarà?"
Parlava di noi con quel tipo in un modo che mi fece dispetto.
Ma il ragazzo non seppe che dire. Ed io ero contento che non gli sapesse rispondere. In quel silenzio mio padre è rimasto sospeso nel suo gesto di domanda, gli occhi puntati sul volto del tipo, la bocca un po' aperta, la cenere sui pantaloni.
Ed è stato allora, proprio allora che mio padre ha levato la mano di tasca, l'ha allungata sulla sua spalla e ha tirato giù.
Quello ha cacciato fuori una lingua rosa come ce l'hanno i gatti e se l'è passata più volte sull'ala tenuta, fino a quel punto, coperta sotto la giacca. Non era molto lunga. E il colore tra il bianco e il beige, come la mollica del pane.
Gli era bastata un'ala fatta di pane per venire fin qui.
Per un poco sono rimasti a guardarsi senza espressione. Poi mio padre ha cominciato, lentamente. Ne prendeva dei piccoli pezzi con due dita, li portava alla bocca e ingoiava.
Non so quante sere mio padre abbia trascorso a piluccare l'angelo, a sabotargli le ali.
Dopo si è alzato. E mio padre ha fatto in fretta a seguirlo come per cortesia, quasi come in un atto di galanteria.
Se ne stavano andando.
Allora avrei voluto dirgli:" Papà, senza che te ne vai con quello, non ti credo. E' uno scherzo che avete preparato insieme per far ridere me che invece adesso ho solo un dolore, vedi, qui, un dolore forte e vuoto che può far male come solo un dente tutto scavato può farlo."
Ma l'angelo gli ha poggiato una mano sul braccio e lo ha fatto voltare.
Mio padre non ha saputo dirgli di no, gli ha ubbidito con gli occhi per terra.
E dopo, l'angelo, incerto nella sua lingua celeste, gli ha detto: "Vedresti, vedresti che ti ci troverai bene."

Letteratura nel quadrante 4

OROLOGI PARLANTI

Chi lo direbbe? Tra gli oggetti dè miei innamoramenti, c'è anche un orologio. Pur nella solitùdine ebbi istanti ancora più solitari. Anche il deserto contiene stese di maggiore desolazione, dove traccia non scorgi di carovana e di belve, orme ed ossa. Studente in una città, nella quale non conoscevo persona e non osavo conòscerne, passavo intere giornate senza uscire di càmera, senza staccarmi dal tàvolo. Per vedere qualcuno, per avere una parola altrùi dovevo farmi malato e mandare pel mèdico. Bisognoso allora di un cuore che al mio si accompagnasse né decidèndosi esso a venire a mè dalla cappa del fumo o dal buco della serratura, lo trovài nell'orologio a pèndolo del caminetto, un orologio napoleònico dal vibrato tic-tac.
E il monòtono monosillàbico bàttito prese tosto modulazioni di lingua.
Era una voce che mi diceva continuamente quanto io bramava di udire "ti amo, ti amo".
E da quell'ora non fui più solo.

CARLO DOSSI, Amori, pag 23, Adelphi

15 aprile 2009

Letteratura nel quadrante 3

REGOLARE L'ORA SULL'OROLOGIO ALTRUI

"L'ora esatta? Buon Dio, amico mio, ma perché insisti? Uno penserebbe che... Ma no, che cos'importa; sarà certamente ora di andare a letto -non ti basta così? Comunque, ecco, se devi rimettere l'orologio, prendi il mio e controlla da solo." E con ciò staccò l'orologio - un orologio di vecchia foggia, straordinariamente pesante - dalla catena, e me lo diede; poi si girò, e attraversando la stanza andò presso la libreria e cominciò ad esaminare i titoli dei libri su uno degli scaffali. L'agitazione a cui era in preda e la sua palese angustia mi sorpresero; sembravano immotivate. Avendo rimesso il mio orologio con il suo, mi avvicinai anch'io alla libreria e gli dissi, "Grazie." [...]
Richiuse l'astuccio con un colpo secco e si rimise l'orologio in tasca. Mi guardò e tentò di sorridermi, ma il suo labbro inferiore tremava e pareva non gli riuscisse di chiuder la bocca. Anche le sue mani tremavano, e lui le infilò, serrate a pugno, nelle tasche della giacca.
Lo spirito audace stava palesemente lottando per sottomettere il corpo pusillanime. Lo sforzo era troppo arduo; cominciò ad oscillare da parte a parte, come in preda alle vertigini, e prima che potessi balzare dalla mia sedia per sostenerlo, le sue ginocchia non ressero ed egli ricadde goffamente in avanti e si abbattè al suolo, a faccia in giù. Io mi lanciai in suo soccorso perché potesse rialzarsi; ma quando John Bartine si leverà noi tutti ci leveremo."

AMBROSE BIERCE L'orologio di John Bartine,
Racconti neri Bompiani.

14 aprile 2009

Letteratura nel quadrante 2

DEUS EX MACHINA: L'OROLOGIAIO


Sulla cornice bianca dello specchio scurito e macchiato, due ganci di
rame, dov'erano state appese le chatelaines delle signore di una volta, erano disponibili a ricevere il mio orologio,che ebbi cura di ricaricare, poiché, contrariamente alle massime dei Telemiti, stimo che l'uomo sia maestro del tempo, che
è la vita stessa, solamente quando l'ha suddiviso in ore, minuti e in secondi, cioè in parcelle proporzionate alla brevità dell'esistenza umana. E pensavo che
la vita ci sembra corta solo perché noi la misuriamo sconsideratamente
alle nostre folli speranze...
Noi tutti abbiamo, come il vegliardo della favola, un'ala da aggiungere al nostro
edificio. Io voglio portare a termine, prima di morire, la storia degli abati di Saint-Germaine_des_Prés. Il tempo che Dio accorda a ognuno di noi è come un prezioso
tessuto che noi ricamiamo del nostro meglio. Ho ordito la mia trama
con ogni sorta di illustrazioni filologiche. Così volavano i miei pensieri e, annodandomi il fazzoletto sulla testa, l'idea del tempo mi riportò al passato e, per la seconda volta nel giro di un quadrante, pensai a te, Clèmentine, per
benedirti nella tua posterità, prima di soffiare sulla candela e di addormentarmi al canto delle ranocchie.

A. FRANCE, Il misfatto del professor Sylvestre Bonnard,
Serra e Riva

Ed., pag.77

12 aprile 2009

Letteratura nel quadrante 1

DEUS EX MACHINA: L'OROLOGIAIO

[...] Ma il cielo, pietoso dell'umana generazione, vedendo che il
soverchio pensare alle cose, anticipatamente ci avrebbe consumati, mandò al mondo una setta novella di uomini, a far fronte a quella importuna genia, che con le
sue rigorosità guastava la quiete dei viventi. Furono questi gli oriuolai; cotanto privilegiati dal cielo, ch'ebbero ingegno di chiudere ventiquattro ore in una cassettina di argento, di oro o di altro metallo; e dividerle anche in minuti, secondi, e quasi attimi; riducendo la cosa ad un modo, che ognuno può avere a posta sua nella tasca un giorno e una notte: cosa che quanti furono Zenoni, Crati e Crateti,non avrebbero indovinata giammai. [...]
Non è dunque punto da maravigliarsi, se dopo questa benedetta invenzione
degli oriuoli, gli uomini vivono più spensierati, più quieti; se non si vede gran movimento nelle genti; se non ci sono quelle antivedenze, che faceano un tempo
disperare. Per la qual cosa, io stabilisco, che i veri filosofi che hanno illuminato il mondo sieno gli oriuoli.

G. GOZZI Osservatore, parte II.
In Crestomazia di G. Leopardi, pag 242

Berruguete 1

CANE DI PANE

Berruguete corre intorno al palazzo per acciuffare un cane di piccola taglia che gli ricorda qualcosa o qualcuno che ha già conosciuto. Il cane è lì ma non si fa afferrare e Berruguete allora prova nostalgia, una nostalgia feroce come la può dare solo una cosa che ci appartiene e che non possiamo raggiungere. Sembra la nostra migliore opportunità, ma ci sfugge. E' un sorriso che non guarda noi e questo ci dispiace.
"Perché insegui quella povera bestia?" dice il fornaio. "Non vedi che ama di libertà la povertà e lo stento? Credi che se lo avesse voluto non avrebbe trovato già un padrone? Ma non lo vuole. Non lo vuole."
Allora Berruguete piange, piange come se tutte le nuvole fossero nei suoi occhi. Appoggia la fronte al muro e con quei goccioloni di lacrime a singhiozzo vorrebbe scioglierne tutti i mattoni. Potrebbe fondere tutti i palazzi che sono lì intorno, passare nei muri come una crema nei bomboloni.
Il fornaio capisce che è meglio riportare alla ragione quel diavolo che lacrima e singhiozza. E singhiozza talmente che certi strappi gli partono violenti dalla bocca e vibrando sembrano tornare indietro nella gola e se ne vanno giù per il collo e tutta la persona, che infatti si scuote e vibra e pare che Berruguete si prenda a morsi da sé.
“Ma cosa vuoi che sia un cagnetto come quello?" dice il fornaio.
Così gli va vicino e lo rincuora. Ma quello niente.
“Ma perché" gli dice, "perché lo vuoi quel cane? Ti ha forse fatto un torto? Ha forse morso i tuoi calzoni?"
“Quel cane" dice Berruguete tra le lacrime, "quel cane è mio zio!"
Allora il fornaio prova una grande pietà per Berruguete. Entra nella sua bottega e si mette a lavorare un pezzo di mobida pasta e gli dà forma di cagnetto.
Il fornaio è un artigiano esperto. E lesto. Se gIi dai una mollica ti fa un paesaggio. Con un pugno di farina è capace di creare tutto un panorama di case, boschi e città.
Solo i fornai potrebbero dar vita a una nuova civilità, fare addirittura un mondo nuovo, diverso e migliore. Ma ci sono certi passeri neri che non si perdono una briciola e allora questo mondo non si vede e non si vedrà mai.
Insomma, Piero fornaio fa questo cagnolo con delle zampette così deliziose, con un musino di tale grazia, una codina talmente vezzosa che quando il pane esce dal forno non sa lui stesso se darlo a quel piagnone di fuori o tenerlo per sé. Comunque la cosa è fatta e tanto vale darglielo. Lo chiama dalla soglia deIIa bottega e dice: "Vieni, vieni qua Berru, te ccà, tiè tiè, tzu tzu tzu."
Berruguete va verso di lui e lo raggiunge, mite. Siede sul gradino su cui batte il sole di questa primavera tardiva.
Piero fornaio siede vicino a lui, con fare dolce gli dice: "Ecco il tuo cane di pane. Prendilo e non stare lì a frignare ché mi spaventi tutte le donne che fanno la spesa."
Ecco che quello si sente rincuorato, smorza i singulti.
La buccia amara del dolore si apre piano piano, viene messa via la parte peggiore.
Piero e Berru guardano l'opera. Vedono bene che acqua e farina sono una gran cosa messe assieme. Capiscono la storia ebraica del fango e di chi ci soffiò sopra. Di Adamo fatto di acqua e terra, di Eva cotta dal fuoco del sole.
E stanno assorti, gli occhi persi negli occhi gonfi del cane fatto di pane... Sono solo due piccole borchie di pasta dorata. Ma hanno dentro la vita, danno il coraggio che dà l'ora mattutina. Sono la calma. L'inizio della tregua. L'alba.
Con la mano sinistra Piero fornaio dà un pizzico alla zampetta del pane, ne stacca un grammo, lo tiene fra due dita. Lo alza che quello brilla di luce nel controluce, fuma di forno, svapora la sua anima in un bagliore. Poi, con molta dolcezza, lo mette sulle labbra di Berruguete che ne prende il calore quasi con spavento. Sa, sa bene che è un miracolo, lo vede alla luce del sole.
E Piero e Berru mangiano pane. Un pizzichino tu, un pizzichino io.
Il cane, che è un pane, si lascia prendere da ogni parte. Si concede per vocazione e mansuetudine antica. Perché il pane è il migliore amico dell'uomo.
E mentre questo accade, a due passi da loro, lo zio di Berruguete sta a gambe larghe mezzo seduto su un alto scalino invisibile. Lo fa come lo fanno i cani.

Povertà dei tempi poveri

Noi...
siamo così poveri che andiamo a far la spesa al mercatino delle bucce

11 aprile 2009

Supermarket

Al supermercato porsi, come al solito e con la cortesia imbarazzata di sempre, la tessera fedeltà. La cassiera passò tutti gli articoli, uno a uno, come al solito. Lo scontrino si concludeva con il tradizionale saluto a mio nome. Ma cominciava a seccarmi che il sistema informatico del supermercato memorizzasse e tenesse traccia di tutti i miei acquisti, alcuni dei quali rivelatori di chissà che cosa o potenzialmente imbarazzanti: pannolini, preservativi, shampoo antiforfora.
Nell'elenco di quel giorno di spese distratte e forsennate c'erano anche due barrette di cioccolata, una piccola bottiglia di liquore, e tre pacchetti dei miei sigari preferiti. Tutta roba proibita, insomma. Proibita da mia moglie, s'intende, altrimenti legittima in qualsiasi altra famiglia, per qualsiasi altro uomo nato dopo la rivoluzione francese.
Avevo sepolto la merce a rischio sotto una montagna di acquisti utili per la casa e per i bambini sperando che il volume delle cose nascondesse ogni traccia dei miei peccati, o meglio delle mie libertà, del mio personalissimo piacere.
Mi ero guardato bene intorno al momento di estrarre dagli scaffali i miei sogni di alcool, di cioccolato e di tabacco. La paura che qualche vicina di casa mi vedesse e ne parlasse non mi abbandonava. Da quando poi Matilde, mia suocera, si era data all'informatica non avevo proprio più pace. S'era messa a seguire lezioni base sull'uso del computer in certi corsi serali per anziani, per poi passare con una brillante quanto rapida ascesa, ai corsi di hackeraggio spinto, e quasi per scherzo. Ed era stato il peggio che mi potesse capitare. Non so per quale insana ed innata inclinazione, lei riusciva a fare cose che nessuno dei suoi vecchi maestri di corso era mai riuscito a fare. Intrusioni... non c'era niente di più facile per Matilde, la suocera del desk... la valchiria delle reti. E da quel momento ogni barriera alla mia vita privata era caduta, perchè ogni abilità della maledetta sembrava diretta a controllare ogni mia mossa, ogni mio pieno di benzina, ogni acquisto online, ogni pagamento di bolletta via homebanking.
Ma sapevo bene che questo, probabilmente, non sarebbe bastato. Non l'avrei fatta franca.
No, non ci sarei riuscito se non avessi manomesso, quella stessa mattina, il suo impianto di spionaggio, mettendo fuori uso i banchi di memoria con un velo di silicone che ne inceppava lo scambio elettrico con il resto della macchina infernale. Avrebbe perso dei giorni prima di capire. Io intanto avrei consumato in santa pace le mie barrette dolci e croccanti, avrei tracannato la modesta quantità di liquorino in piena beatitudine, fumando a più non posso con un ebete sorriso sulle labbra. Avrei goduto il piacere del peccato, le piccole felicità dell'uomo che vive senza guardiani.
Questo pensavo mentre la cassiera faceva andare con aria professorale il suo bip bip della lettura codici prodotto. La guardavo e mi sembrava di conoscerla. Ma mentalmente ripassavo tutte le mosse fatte fino a quel momento.E mi dicevo: è tutto a posto, Mario, è ok, l'hai fatto, bravo. E più ancora immaginavo la faccia di Matilde: oscura, viola, nera.... una faccia non illuminata dalla luce del computer, accecata nella sua vita da guardona. Una cosa livida ed inutile.
Gli ultimi bip bip dei codici- prodotto... la tessera fedeltà che scivola, finalmente anonima, anche se per poco, nelle mani della cassiera. Ormai è fatta, è andata. Nessuno sa. Nessuno ha visto.
“Arrivederci, signorina”.
“Arrivederci e grazie. E mi saluti la signora Matilde”.
E come un ladro, in preda al panico, infilo la prima uscita.

Il porco letterario

La regione Campania mi ha finanziato un progetto molto interessante.
Si tratta di un Porco Letterario. Il famoso Porco Letterario del Cilento. L'idea è semplice ma molto coinvolgente e destinata a far crescere in maniera smisurata il turismo, soprattutto nella zona interna della provincia di Salerno.
Proprio qui infatti è stata avviata la sperimentazione che non ha lesinato motivi di compiaciuta soddisfazione a quanti vi hanno preso parte.
L'idea è semplice, come ti dicevo. Innanzitutto si prende un porco. Lo si scolarizza a dovere per circa sei sette mesi durante i quali ello impara ad essere compìto, a comportarsi in maniera consona ai doveri che lo attendono, a mangiare solo quando necessario, a sorridere solo quando piace agli altri. Ello saprà, a fine corso, accogliere graziosamente i gruppi turistici, vestirà in modo consono ad un vero abitante del Cilento, saprà essere riverente con le signore, educato ma distaccato con i signori e con i bambini, poi, un vero simpaticone.
Ello porco a questo punto però non è ancora pronto. Una serie di lezioni tenute da educatrici dal polso fermo ma dall'animo sensibile (e qui noi tiriamo in ballo la crema dei docenti del posto!) si occuperà di indottrinare il porco letterario secondo i dettami del purismo linguistico, tipico della zona di sua residenza.
In pratica ello imparerà le inflessioni locali, tanto le cupe e ridondanti parlate montane quanto quelle acute e femminine della costa. Non sarà da trascurare l'eloquio tipicamente vallese che, a causa della sua specificità, vedrà il porco letterario trasferirsi nella cittadina e passeggiare per le vie del centro, taccuinetto alla mano per gli appunti, cestino di vimini per la merenda, e la canonica tutina alla marina che si richiede ad un porco di buona quanto agiata famiglia. In pratica ello sarà indistinguibile da un qualsiasi abitante vallese.
E' bene che ello non si distragga neanche durante il trasferimento dalla stalla a Vallo. Durante il tragitto, infatti, gli verranno mostrate immagini della tipica facies vallensis, tra cui ello stesso riconoscerà i suoi più prossimi avi, cominciando così a costruirsi una identità precisa e netta.
Nel pulmino per il trasferimento saranno anche proiettati film didattici e la serie di Quirk Quork Quark dedicata alla vari avita animale del circondario..
Ogni momento è un'occasione di apprendimento. Il porco letterario lo capirà molto presto.
Ma questa fase è semplicemente preparatoria. La vera formazione del porco è, come si sarà già compreso, letteraria.
Quindi è bene che ello conosca tutta la tradizione letteraria italiana. Sarà ovviamente rispettato il programma ministeriale.
Non verrà in tal senso trascurato lo studio della commedia dell'arte e delle sue simpaticissime maschere: Porcinella, ad esempio. E si controllerà che i compiti assegnati vengano redatti con puntualità ed ordine. Tutto concorrerà a non fare di ello un porco di buono.
In tutto questo periodo sarà necessario vigilare anche sui costumi sessuali del detto porco. Soprattutto si farà attenzione acciochè ello non abbia contatti con le vacche, soprattutto con le porche vacche che a causa della loro mista e sinistra natura di bovino e suino, possono anche ingenerare casi di disturbata personalità nel porco. La letteratura freudiana cita anche casi di schizzofrenia porcina e questo deve essere considerato dalle assistenti (e qui noi tiriamo in ballo il fior fiore delle maestre locali).
Una volta superati i tests attitudinali predisposti da un comitato di valutazione all'uopo eletto e foraggiato, il porco è pronto per iniziare la sua attività vera e propria.
Si mette il porco all'ingresso di un paese del Cilento. Arriva il pullman dei turisti. Il porco si avvicina con grazia all'automezzo, facendosi accompagnare da un guardiano che gli sta sempre vicino. Il porco entra nel pullman. I turisti sono sorpresi e fanno tutti "O" con la bocca. Il porco letterario, per rompere il ghiaccio, immediatamente declama una poesia, prima nella versione in lingua originale, poi immediatamente dopo nell'idioma cilentano.
Tutti i turisti faranno "A" con le bocche.
Il porco scende dal pullman e si rimette gli occhiali da sole. Ello china la testa. Dà uno sguardo al guardiano che lo accompagna.
Ello china la testa un altro poco.
Il guardiano lo cavalca e gli abbraccia il collo.
Il porco alza la testa e vede il cielo estivo smaltato dal sole.
Il guardiano gli passa la lama nel collo.
Il porco aveva dimenticato di dire ai turisti "Buongiorno".
E così si muore.