8 ottobre 2009

Al Sultano Cheelì - 10

La lite tra Sulpa e Corenti

Corenti pure salutava, girandosi continuamente a guardare verso la casa che rimpiccioliva dietro di noi. Aveva l'aria commossa dell'uomo stanco che è stato tra le braccia di una donna per lungo tempo.
“Queste vedove...” sospirò .
“Ah, era una vedova?”
“Diciamo vedova, ma non so se il marito sia morto. Però è come se lo fosse.”
“Allora perché la chiami così?” chiese Sulpa.
“Sono tre mesi che il marito non c'è. Lei stessa mi ha raccontato la sua sua triste storia. Amici, non vi nascondo che ho stentato a trattenere le mie lacrime.”
“Sei troppo sensibile, si vede da come ti comporti” disse Sulpa guardandomi significativamente.
Sorrisi. Ma non sorrise Corenti, anzi sembrò piccato a quelle parole.
“Che vuoi dire?”
“Ma come, ti porti a letto una donna e ti commuovi per il marito?”
“L'hai detto tu stesso che sono troppo sensibile. E poi – disse Corenti melodrammatico – è stato proprio un lampo d'amore.”
Non potemmo fare a meno di ridere. E ridemmo ancora di più quando Sulpa cominciò una pantomima spassosa di Corenti e la vedova che copulavano sfrenatamente. Sulpa impersonava Corenti e un albero di pere era nei panni della donna. Mente lui le diceva “Amore, sì, sì.. parlami di tuo marito” l'albero si scuoteva facendo cadere qualche frutticino maturo.
Corenti se la prese proprio a male. In un attimo fu addosso a Sulpa ingiuriandolo e battendolo con un pezzo di legno che gli era capitato a portata di mano. E mentre uno diceva “Che ne sai tu dell'amore?” l'altro, tra un cazzotto e uno spintone, gli diceva semplicemente “Sei un ipocrita porco.”
Riuscii a dividerli prima che si rompessero le corna tutti e due.
Affannavano seduti nella polvere che avevano alzato nella lotta.
“Direi che basta così – dissi – non dimenticate che questo non è un viaggio di piacere e vi siete offerti per aiutarmi. Alzatevi e andiamo.”
Allora Corenti disse: “Dobbiamo fare attenzione ai combattenti o prenderanno anche noi.”
“Ma di che diavolo parli?”
“La vedova mi ha detto che il marito è stato rapito. Una mattina sono arrivati in sei, a cavallo e armati. Hanno fatto uscire dalla stalla il povero Matierni, il marito della vedova. Gli hanno legato le mani prima che potesse afferrare un'accetta e lo hanno portato via. Matierni diceva di non aver fatto nulla, che era un semplice contadino e che obbediva alle leggi. Implorava di lasciarlo andare mentre la vedova straziata cercava di fermare il cavallo di quello che sembrava il capo della banda. Ma niente. I bambini piangevano e strillavano. L'hanno portato via lasciando l'inconsolabile donna da sola.”
“Be', inconsolabile è una parola grossa” interruppe Sulpa ma Corenti fece finta di non aver sentito.
“In questa zona girano uomini armati che catturano gli uomini e li portano via. Si dice che ci sia una specie di esercito fatto di questi rapiti. Il caso della vedova non è l'unico da queste parti. ”
“Allora è proprio il paese che fa per te” disse Sulpa. Questa volta Corenti gli tirò una pietra senza colpirlo e per fortuna la mischia non si riaccese.
“Sta accadendo qualcosa di grosso in tutta l'isola, credo” concluse Corenti.
“Ma sono anni che non si parla più di briganti.”
“Non si tratta di briganti, è evidente. Quelli rapivano gli uomini per avere denaro. Da quello che si sente dire, qui si tratta d'altro, sono uomini che vengono portati via per formare una specie di esercito o qualcosa del genere.”
Mettendo in mostra la mazza con lo stendardo dissi che se ci fosse stata una guerra in atto tu, mio Sultano, avresti certo mandato un dispaccio per informarne i tuoi servitori fedeli. E' vero che sono quasi due anni che nessun dispaccio di nessun genere ha raggiunto il governatorato di Colanskji. E' ancora più vero che nei nostri piccoli villaggi dell'interno le notizie arrivano sempre dopo, ma una cosa così grossa l'avremmo dovuta sapere anche noi, che diavolo! In occasione delle guerre non è mancato uomo fedele ai tuoi ordini anche a Colanskji. Lo stesso Sulpa ha combattuto la guerra delle Due Riviere.
Ma se c'è chi rapisce gli uomini abili alla guerra, come faremo a trovare uomini per lavorare la terra?
Intanto s'era fatto tardi. Calato il sole s'erano accesi i grilli. Nel cielo su cui si stende il tuo giusto governo, ogni stella aveva qualcosa da dire. Decisi di proseguire per almeno un'ora. Avremmo messo tra noi e la vedova una distanza sufficiente a scoraggiare la vocazione consolatoria di Corenti. Finalmente ci stendemmo in un campo per dormire.

29 settembre 2009

Al Sultano Cheelì - 9

La vedova

Camminammo non poco per raggiungere la casa che era stata di Sulpa. Dovemmo attraversare un ruscello poco profondo per evitare un giro troppo lungo e l'ultima parte fu tutta una salita verso la cima dove c'era la casa.
Corenti non fece che bestemmiare per tutto il tragitto, lamentandosi di ogni cosa gli capitasse sott'occhio: l'acqua, le pietre, le spine, l'aria. Ogni cosa, insomma.
Sulpa non parlava e nemmeno a me venne in mente di aggiungere parole al suo silenzio.
Un cane ci abbaiò contro non appena fummo a poco distanza dalla casa. Uno spiazzo ben tenuto le stava davanti e vi giravano tutti quegli animali di bassa corte che fanno ricche queste case di campagna e le tengono sempre vive di suoni e di movimento.
Una donna che rimestava in un secchio si voltò verso di noi cercando di riconoscerci.
Non potendo darci un nome tra quelli che conosceva, ci chiese chi stessimo cercando.
"Non cerchiamo nessuno. Sono l'intendente del Sultano, del governatorato di Colanskji. Dateci da bere, buona donna".
Agitai il bastone con il vessillo a chiarire il concetto e fugare ogni incertezza. La donna capì, ci fece sedere su un sedile di pietra e sparì in casa. Quando ricomparve aveva una brocca d'acqua e tre bambini che le giravano intorno.
Corenti, come sempre gli accade quando vede una donna, si ritrovò con la lingua sciolta. Cominciò a chiedere notizie sulla produzione della zona e se la siccità era stata forte, se c'era produzione di ortaggi, e quale i lavori più urgenti da fare. "Occorrono pozzi? Un ponticello sul fiume non sarebbe poi comodo a tutti?". Disse, a questo riguardo, che avremmo fatto sapere tutto al Sultano. Del che io mi vergognai, ma l'acqua era fresca e tutto passava in subordine.
Ed ecco che la donna ci fa una relazione come solo i contadini della nostra amata terra sanno fare. Dice che le cose peggio non potrebbero andare, che il gran caldo non ha reso possibile nessun raccolto, che le piante sembrano morte appena nate e nate da poco prima di morire definitivamente senza aver dato nessun frutto. Una terra senza giovinezza e senza maturità, insomma, che dio la maledica!
Hai pomodori piantati? Fanno i fiori e il vento caldo li fa cadere. Se pianti patate ci pensano i topi a lasciarti solo le foglie. La vigna la mangiano i cinghiali e quello che lasciano è buono per farci un decotto e non certo per dare da bere agli uomini assetati quando a sera fanno ritorno dalle terre più lontane, se . "No - dice la donna - quest'anno era meglio non perderci il tempo con la terra e starsene a guardare la malora generale senza darle la fatica delle braccia".
L'anno precedente, invece, era stato abbastanza buono. Perché l'anno precedente, almeno, qualcosa s'era raccolto. No, non c'era paragone, anzi, decisamente un'annata discreta era stata. Insomma, mio Sultano, i soliti discorsi che tutti i contadini della tua terra ripetono ogni anno da anni e forse secoli o comunque tutte le volte che sospettano di dover tirar fuori qualcosa. E' brava gente che vive nell'anno precedente.
Terminata questa litania, Corenti dice che ad ogni modo le donne della zona sono le più belle che lui abbia mai visto, e che sono il fiore profumato di questo deserto doloroso. Un poeta... E lo dice così, senza che la frase abbia nessun nesso logico con il discorso che si sta facendo.
Ma che sia un lampo in un cielo senza nubi la signora non lo vede, anzi deve trovare la cosa coerente a sufficienza, infatti si prende il complimento per buono e si propone di offrirci qualcosa da mangiare. "Ma una cosa alla buona, che in casa non c'è molto" ci avverte.
Diavolo di Corenti! Ecco che strappiamo a questa annata miserabile che sembra destinarci ad una carestia senza precedenti un gran pezzo di pane ben cotto e peperoni, olive, fagioli e insalata e un pezzo di formaggio dall'ottimo aspetto e di miglior sapore, per giunta un salame così piccante che la lingua fatica a sentire i denti in bocca. Tutto in abbondanza. Non manca una seconda brocca, stavolta piena di vino. Forse un po' amaro, ma buono.
Corenti, che probabilmente punta addirittura al dolce, si spertica in complimenti ad ogni boccone. I peperoni sono cotti come nessuno mai li ha saputi cuocere, l'insalata sembra tagliata dalle mani di una fata tanto sono sottili e croccanti le foglie sotto la lingua, le olive sono conciate senza essere dure e senza essere troppo mosce. E qui ammicca, ah se ammicca.
"Porto qualcosa anche per il vostro amico? Avrà fame anche lui" chiede la donna. Ci accorgiamo che Sulpa non è con noi e si è perso quella colazione.
"Vado a cercarlo io" e lascio che Sulpa intrattenga la donna come gli pare, chiacchiere non gli mancheranno.
Giro intorno alla casa ed eccolo lì. L'albero è davvero grande e ci sono sul serio gli uccelli che vanno e vengono, incuranti dell'altalena che due corde tengono sospesa con Sulpa che ci sta a gambe tese, gli occhi chiusi dentro chissà quale ricordo o chissà quale trionfo che gli stampa sulla bocca un sorriso mentre i bambini lo spingono di gran carriera verso il cielo aperto.
Mio Sultano, dicono che l'estasi sia uno stato di grazia di breve durata, una specie di pesce che lampeggia sul fondo scuro del fiume facendosi catturare solo dall'occhio del pescatore che si annoia nell'attesa. Evidentemente quello di Sulpa era destinato a prolungarsi un po' di più.
A turno i ragazzini lo spinsero per lungo tempo senza che la sua faccia mutasse aspetto. Il sole cadeva dietro le colline e sull'albero gli uccelli sembravano prepararsi alla notte. Se ne erano concentrati parecchi tra i rami e in un frastuono infernale si preparavano al silenzio della notte.
Aspettai che Sulpa scendesse dall'altalena. Poi insieme dovemmo aspettare che Corenti scendesse dalla giostra della donna che aveva spinto la sua cortesia oltre ogni previsione. Perché, mio Sultano, l'ospitalità delle tue genti è veramente senza limite da queste parti.
Quando tutti i dondolii furono finiti, ci avviammo inseguiti per un bel pezzo dalle voci dei bambini che salutavano Sulpa.

Al Sultano Cheelì -8

La casa di Sulpa

Era tempo di fermarsi e mangiammo qualcosa ciascuno per suo conto all'ombra di una pianta.
Sulpa invece s'era messo a un canto della strada e guardava incantato fisso ad un punto.
"Che c'è Sulpa? Che stai guardando?"
Mi fece un cenno con la mano in direzione di una collina sulla cui cima si intravvedeva una costruzione bassa e larga. Era probabilmente una casa di pastori o un semplice ricovero per le bestie, a giudicare dalle dimensioni del fabbricato.
"Un ricovero per il bestiame… Ne abbiamo visti tanti fino ad ora." dissi.
"Be', quella era casa mia. C' ho vissuto da ragazzo." disse Sulpa. "Guarda il tetto di quanti colori è. Sembra un aquilone. Non so quante volte l'abbiamo riparato io e Silpa. Un'estate ci fu una tempesta che ce ne portò via quasi una metà. Passammo tre giorni a cercarne i pezzi ancora utilizzabili tutt'intorno la casa, sparpagliati come una manciatina di sale. Eh, il posto è bello ma quando tira il vento è sempre un problema. Quella parte di tetto che vedi più rosa, là, sulla destra, quella è fatta con le tegole della stalla di Pirincip, un nostro parente che viveva in fondo all'altra valle. Questo Princip, che noi chiamavamo zio Prin, lasciò la terra e tutto ciò che aveva, bestiame e piante, all'improvviso".
"Nel senso che partì?" chiesi poco curioso del destino dello zio, ma più per cortesia.
"Non se ne sapeva nulla. Non se ne è saputo più nulla dalla sera alla mattina. Le sue cose sono andate in malora. Per un po' abbiamo pensato che sarebbe tornato, ma niente. Così io e Silpa una volta siamo arrivati fino a quella specie di catapecchia dove viveva e abbiamo fatto un carico delle poche tegole ancora utili, o di quelle che erano rimaste perché la gente lì vicino si era già servita. Degli attrezzi e degli animali neppure l'ombra, ovviamente."
Alzando lo sguardo al cielo tutto preso dal sole, Sulpa aggiunse "Proprio così, sparito da un giorno all'altro. Partito o solo sparito, chi lo poteva dire? Chissà, forse il vento di tutte le tempeste s'era portato via zio Prin tutto intero."
Automaticamente guardai anche io nel cielo, come se da un momento all'altro potessi vedere che fine avesse fatto questo zio aspirato nelle altezze del cosmo e risolvere con un colpo di fortuna il segreto che lo avvolgeva. Niente altro che un cielo con un sole abbagliante, una nuvola piccola e chiara appoggiata in fondo alla scena sopra la fila di colline che avevamo davanti.
Feci per muovermi, considerando che il racconto fosse finito. Ma Sulpa mi mise la mano sul braccio per fermarmi.
"E l'albero grande, lo vedi l'albero grande? L'ho piantata proprio io. Era solo una ghianda messa in una vecchia scarpa con della terra. Era una piantolina con una forza straordinaria. In pochi mesi era già alta così" e mise la mano a mezz'aria come stesse accarezzando un cane.
"Guarda adesso che pianta! Ci stavo attento tutti i giorni: acqua, terra, un po' di letame. Poco per volta cambiavo il contenitore finché fu pronta per la terra aperta. La difendevo dalle formiche e dal maiale che ci si voleva strofinare la schiena. Mi ero convinto che senza di me non potesse farcela. Pensavo che saremmo cresciuti sempre assieme. Uno necessario all'altra."
"Pare che se la sia cavata bene anche da sola" dissi.
"Pare anche a me" aggiunse deluso Sulpa. "Eppure siamo stati bene assieme. Aspettavo solo che crescesse per metterci un'altalena o farmici un rifugio. A volte mi immaginavo che sarebbe stata il mio miglior riparo alle piogge o il mio posto preferito per la caccia ai nidi. Poi un giorno è tornato".
"Ma chi?"
"Lo zio Prin. Bussano alla porta ed eccolo lì sull'ingresso, tutto ben vestito, quasi con un'aria da signore. Una tunica ben rifinita, una grossa borraccia a tracolla e per completare l'opera e la nostra meraviglia anche un fucile sulla spalla. Allora mio padre gli chiede cosa ci faccia dalle nostre parti, con un tono un po' infastidito tanto che io e Silpa ci fermiamo dove siamo. Perché stavamo per corrergli incontro felici di rivederlo. E lui fa per entrare, ma anche mia madre gli dice di restare dov'è. Briganti in casa non ne vogliamo, gli dice. Dice anche che tutta la famiglia ha vergogna di lui. Capisci? Un brigante in carne ed ossa alla porta della nostra casa e per giunta è lo zio Prin, uno che gli potevamo tirare i baffi e che adesso ci potrebbe tirare il collo a tutti e quattro quanti siamo nella cucina. Io e Silpa non possiamo credere a quello che vediamo perché dei briganti abbiamo sentito parlare senza averne mai avuto un'idea chiara. Sappiamo cosa fanno, sappiamo che è gente violenta. Quando Silpa mette il dito nella pentola prima che siamo tutti a tavola e se lo lecca di gusto mia madre gli dice che è proprio un brigante, proprio così.
Allora mi passa per la testa che lo zio Prin sia venuto a reclamare per le sue tegole e a lamentarsi del nostro furto. Vedrai che adesso mi dice che sono un lurido porco ladro, penso tra me e me e mi metto più dietro a mio padre. Ma i briganti sono così, è gente che prende la roba degli altri senza chiedere il permesso. Quindi zio Prin non può mettersi a fare tante storie per qualche tegola proprio con noi che siamo suoi parenti. Ma un brigante non si lascia fermare dalle parole di una donnetta qualsiasi e dalla domanda di un uomo disarmato.
Entra in casa e si siede al tavolo, si serve una sorsata d'acqua dalla brocca e per giunta si colma la borraccia che ha al fianco. Dice solo poche parole: grazie dell'acqua. Ma lo dice tra i denti e con un sorriso storto senza allegria, e io penso che si riferisca all'acqua che gli è piovuta nella casa senza tegole e mi metto ancora più dietro a mio padre. Invece lui mette due monete grosse accanto alla brocca e sparisce, questa volta per sempre."
"Bene, sarà meglio riprendere il cammino" dico io.
"Monete d'oro" dice Sulpa e allora mi fermo dove sono.
"Due monete d'oro con la faccia di Supàr Parìd che brilla di luce. Una roba mai vista in casa mia. Fu con quelle monete che mio padre comprò l'asino che ci avrebbe portati via di qui. E due agnelli figli della stessa pecora che mio padre chiamò Sulpa e Silpa, proprio come noi, creando qualche confusione fin quando non decise di non chiamarli più per nome."
"E poi? Che ne è stato del brigante?"
"Ecco, in verità mio padre aveva dato lui dei soldi a zio Prin ai tempi in cui le cose non gli andavano bene. Ma mio padre si era preso a garanzia la sua casa, mettendolo alla porta e destinandolo a vivere in quella catapecchia che poi lui aveva abbandonato all'improvviso. Zio Prin era tornato sotto forma di brigante a saldare il debito e a riprendersi caparra e garanzia, pagando certamente molto più di quello che aveva avuto a suo tempo. Seppi poi che mio padre avrebbe voluto tenersi la casa e restituire il di più, ma non ci fu nulla da fare. Zio Prin volle prendersi la soddisfazione di vederci andar via. Così dovemmo lasciare la casa mentre lui ci guardava partire."
"Ma che diavolo!" dissi indignato.
Ma Sulpa si fece una risatina amara come non gli avevo mai visto fare.
"Chi fosse il diavolo me lo sono chiesto anche io, mio padre o zio Prin? Dove era cominciato il male? Chi aveva rubato di più? Non saprei dire. Ma il mio albero è ancora lì e, a giudicare dagli uccelli che ci girano intorno, ci devono essere molti nidi. Ma forse nessuno ci ha mai giocato sopra."
"Andiamo a vedere" dissi senza pensarci troppo su.

Al Sultano Cheelì - 7

Via dalle donne

Chi guarirà l'uomo dai dolori che una donna, anche qualsiasi, può infliggergli? Per quanto ci fossimo fatti coraggio tra noi mostrandoci sprezzanti e indifferenti, le parole della Gagliova battevano ancora nelle nostre orecchie e picchiavano sul nostro amor proprio ancora con più forza.
Incamminati sulla strada maestra, ce ne andavamo in fila silenziosamente tirando di tanto in tanto qualche calcio alle pietre, come muli insoddisfatti che portano un peso non appropriato alle loro forze.
Mi sono spesso chiesto, mio Sultano, quale sia l'aria e la luce del giorno che possano cancellare del tutto i segni di una notte con una donna. La giornata che avevamo davanti era impastata di bel tempo, il vento aveva tirato via dal cielo ogni nuvola. Un poco di pioggia aveva smaltato foglie e tronchi degli alberi. Era solo colore, quell'acqua non era certo abbastanza per irrigare la terra e adesso che il sole era ricomparso forse avrebbe solo steso un altro velo di arsura sul terreno.

Corenti fu il primo a spezzare le parole del nostro disappunto. “Che cosa vuol dire che uno ha la miccia corta? Quella strega ha detto che Sulpa ha la miccia corta e la polvere bagnata.”
“Veramente si riferiva a te, Corenti. Non cambiare le carte in tavola”, ha puntualizzato Sulpa.
“Ma che dici, mentitore? Credi di poter fare carrozzine fasulle anche con le parole?”
Da qui in poi, mio Sultano, il discorso si è fatto troppo acceso e poco adatto alle tue orecchie che sono abituate a ben altro. Io stesso ho tralasciato di seguirle. Mi sono invece messo qualche metro più avanti per non sentire. Ero infastidito dalla lite verbale di Corenti e Sulpa, ma avevo in mente altro. Dove avremmo trovato uomini per lavorare le terre di Colanskji? Chi mai ci avrebbe aiutato?

Al Sultano Cheelì - 6

Dopo il sogno

Mio Sultano, che tu non abbia ad offenderti se ti ho sognato con tanta familiarità. Se questo offende la tua persona o urta in qualche modo la tua dignità, sii severo con me. Lascia che io apprenda le buone maniere e come si conviene, a un servo, trattare il padrone anche nel sogno.
Ma se dovessi raccontarti favola più bella o delirio più splendente, sempre questo sogno ti racconterei.
Vedo però che a più tristi cose è destinata la mia scrittura. Altro è l'argomento del resoconto che scrivo per te. Forse ho troppo divagato. Abbondanti sono le parole dello sciocco.
Ma è bene che tu sappia fino in fondo il dove e il come di ogni cosa, perché è solo quando l'artigiano passa l'ultimo colpo di vernice che il suo lavoro di giorni è ben visibile. Solo allora esso splende, finalmente tratto fuori dalla bottega oscura e dalle forme approssimative della materia, come l'anello al dito di una donna.

Passammo così qualche ora. Sulpa ebbe un sogno agitato e continuava a muoversi da un seno all'altro dell'ostessa senza trovare la posizione giusta che gli avrebbe donato la serenità. Corenti russava della grossa col capo poggiato ai capelli che la donna teneva raccolti in due grosse trecce. Curiosamente, così messo, Corenti sembrava un coniglio con le orecchie abbassate.
Dormiva abbandonato, compagno solo di se stesso.
Fummo svegliati dal rumore del vento fattosi di nuovo forte. Ma la tempesta la prendemmo dall'ostessa che s'era svegliata nervosa e ci mise alla porta con modi sgarbati dopo aver preso il dovuto dalle mani ritrose di Corenti.
"Ma che ha?" chiese Sulpa.
Secondo Corenti non eravamo stati un granché e la signora non si era scaldata a dovere.
Allora Sulpa ricordò che aveva i suoi anni, che da bambino non era stato mai veramente in salute, che bisognava considerare le infamie patite in guerra e le ingiurie dei lavori nei campi.
Trovammo giusto ogni suo ragionamento. Del resto, le cose che valevano per lui valevano anche per noi.
Giurammo seduta stante di non mettere mai più piede in quella locanda. Con l'animo rinforzato da una decisione che in fondo non ci costava nulla, riprendemmo la strada che ci avrebbe portato lontano alla ricerca di uomini da portare nei tuoi campi.

17 settembre 2009

Al Sultano Cheelì - 5

Il sogno

E tu mi chiederai quanto è vero il sogno. E a me piacerebbe poterne censire una parte almeno, per vedere quante volte la tua immagine è compagna delle notti dei tuoi sudditi.
Perché tu stesso hai scelto me, nel sogno, per tua compagnia in un lungo e quieto passeggiare fatto assieme in un giardino mirabilmente ordinato di viottoli e siepi.
C'era un'aria sottile come di prima mattina che illuminava l'ordine del mondo, la giustezza di ogni ramo, l'esattezza di ogni sasso che tu hai voluto appoggiare sulla terra.
Tu eri vicino a me silenzioso, ed ecco che siamo al termine del giardino. Ci fermiamo in un ampio belvedere cintato di statue. Ci sediamo vicini e io mi perdo subito nella mia malinconia. Ti rifaccio il racconto di quello che ho scritto: dell'inverno senza piogge, delle viti ballerine e storte, della terra aperta e senza frutti, le stalle ancora tutte da riparare.
E più parlavo più sentivo che ero preda di un'ansia che non conosceva nessun bene.
Cercavo di non piangere ma non devo esserci riuscito del tutto perché tu mi hai detto: "Non è con quest'acqua che rifiorirai" e mi hai messo la mano sulla gamba. Seppi così cosa vuol dire, alla mia età, avere ancora un padre. E mi hai mostrato col dito cosa c'era oltre la balaustra.
Allora vidi il grande azzurro e le vele turcomanne che l'infiorano d'ogni colore.
Poi, tutti e due facemmo merenda.

Al Sultano Cheelì - 4

Alla locanda del Monco

Preso dall'entusiasmo di questi due bevitori canterini che non mi lasciano parlare e non si lasciano rimproverare, decidiamo su due piedi di festeggiare l'incontro. Allora si torna tutti assieme alla locanda per bere.
Ce n'è, lungo tutte le strade che portano al cuore della tua grandezza, o Sultano, un gran numero. Ma questa locanda, detta del Monco, non è certo tra le più degne d'essere menzionata. Ha piccola la porta di ingresso, piccoli sono i due ambienti che ospitano viandanti e pastori di passaggio. L'interno è sempre avvolto nell'oscurità per via delle ridotte dimensioni delle finestre che danno sulla via principale. Eppure...
Sulpa conosce l'ostessa, una certa Gagliova con due gambe tonde tonde ed un petto, buondìo, che ci potresti fare l'alba dentro e non riuscire a vedere il sole che sorge.
Questa Gagliova è una buona donna. Ha sempre lavorato sodo, mio Sultano, e ha sempre versato la tassa di mescita e distillazione così come tu hai imposto. Lei mi conosce perché sono io che riscuoto i tributi in questa parte dell'isola. Quando mi vede è sempre contenta, perché in me vede qualcosa di te, mio giusto ed onorato signore.
Ci mettiamo seduti ad uno dei tavoli e Sulpa già mesce acquavite nei bicchierini. Fatto ancora più allegro dalla bevanda, Corenti si mette a toccare il sedere all'ostessa che ha due seni che ci potresti far notte dentro senza accorgerti di quando è mezzogiorno.
Gagliova, da brava padrona, ci sta. Lei sa bene cosa fa venire sete agli uomini. E noi ci diamo da fare anche troppo.
Sulpa è fuori di sé dalla felicità. Dice di non sentire i suoi anni, dice anche che le guerre e i giorni di carestia nulla gli hanno tolto, ma l'hanno solo temprato. Quando attacca col suo racconto della guerra delle Due Riviere, io oramai non lo ascolto e non lo sento più.
Dopo diversi bicchierini eravamo tutti e tre sotto le pesanti ali protettrici dell'ostessa. Sulpa s'era attaccato al capezzolo di destra e immaginava di succhiare ancora il suo ovetto di gallina e ciucciava di buona lena. Corenti si dava da fare dall'altro lato e titillava il capezzolo di sinistra facendolo allungare a dismisura. Era felice e credeva di aver ritrovato un coniglietto che nell'infanzia gli era stato carissimo compagno di giochi.
Io, mio Sultano, stavo con la nuca appoggiata tra quei due guanciali e guardavo il soffitto. Meditavo sul tuo buongoverno, pensavo al rispetto che il popolo ti porta e a quanto tu stesso ne mostri a lui, senza nulla tralasciare nella cura del suo bene. Poi, mi sono girato da un lato fissando la mazza con il tuo stenda­rdo e sono caduto nel sonno profondo del desiderio soddisfatto e del vino finito.

7 settembre 2009

Al Sultano Cheelì - 3

In cerca di Corenti

Dopo i soliti convenevoli dei saluti che sembrano scuse, del dove vai e del come stai, del cosa fai e del come mai, gli esposi il mio problema. Disse chiaramente di non poter lavorare lui stesso nei campi, ma che avrebbe certamente potuto accompagnarmi alla ricerca di validi uomini di fatica.
Fu contento di potermi aiutare e così subito uscimmo di casa: io con passo baldanzoso e rincuorato, Silpa spingendo a tutta forza le grandi ruote della sua carrozzina ortopedica.
Quando fummo arrivati al portone della casa di Corenti, Sulpa rimase ai piedi della scalinata che si inerpica nell'androne buio. Andai su.
Busso una volta, busso tre volte e nessuno risponde. Strano, penso tra me e me, a quest'ora di solito Corenti è alla locanda, come mai non apre? Allora decido di andare a vedere se per caso è in piazza o alla locanda, non si sa mai...
Ma quale non fu la mia sorpresa nel vedere che Sulpa non mi aveva aspettato! Raggiungo la piazza ma non c'è nessuno, solo la piazza spazzata dal vento del primo mattino, carte che volano un po' dappertutto e fanno tristezza. Fogli che vanno nel vento e non hanno intorno nessuno. Perdo tempo tra vicoli e strade che alle fine sboccano tutti nella stessa piazza. Qui giro lo sguardo intorno e vedo la sedia di Sulpa che taglia la piazza da una parte all'altra spinta dal vento di gran carriera. E vedo bene che Sulpa non è sulla sedia.
Mi metto a correre per agguantare quello strumento che pare mosso da un istinto infernale e sta per infilarsi un una via secondaria.
La sedia avanti e io dietro, mio Sultano, che non sono più l'agile ragazzo che fui, benché per poco tempo, un tempo. Faccio fatica a starle dietro, e come una indiavolata ha imboccato una discesa e io ho paura, paura di cadere e di rompermi l'osso del collo e finire per sempre seduto su un attrezzo che rotola malinconico sulla terra.
Questo pensiero mi taglia il fiato e allora mi fermo. Non appena il mare dell'affanno ha finito di uscirmi dal naso con tutto il suo fragore, comincio a sentire i suoni del mondo. Prima quello del vento, poi come il botto di qualcosa di legno che si fracassi su pietre (e capisco che pure la sedia è arrivata al suo buon fine) poi la voce di qualcuno si è messo a cantare. Infatti, a squarciagola, con l'impudente felicità degli ubriachi, Sulpa e Corenti vengono fuori abbracciati, che non si sa chi regga chi. Per un attimo tutto il vicolo è una cantina. Il vento sa solo di alito caldo e di vino.
E' bello sentire le voci degli uomini quando per troppo tempo si è solo ascoltato il vento che fischia negli strumenti dei vicoli stretti, dei fili tirati tra casa e casa, nelle mille bocche delle tegole sopra i tetti.
“Crepa!” mi dice Sulpa appena mi vede. E lo dice perché sono sorpreso che sappia star ritto all'impiedi da solo.
In effetti la sedia era di Silpa…

Al Sultano Cheelì - 2

Silpa e Sulpa

Dico questo, mio Sultano, sperando che tu non rida di me e non chiuda qui la lettura di questo resoconto credendomi pazzo.
Ma quello che affermo il tempo lo giustificherà.
Ecco – mi ero detto – solo questi tre uomini potranno aiutarmi. Mi metto di buon mattino la giubba pesante, la zappa – come sai – è sempre dietro la porta, faccio appendere il vessillo con lo stemma della tua famiglia onorata a un bastone che uso per andare a funghi e, così preparato, vado finalmente alla casa di Silpa, certo di trovarlo dove sempre è, accanto al camino fumante, con la pipa fumante in una mano e la tazza di tè bollente nell'altra, avvolto da spire di vapore e fumo che lo fanno sembrare un fantasma.
E infatti così è, lui è lì. Ma la pipa è spenta, il caminetto senza carboni ardenti è un buco nero di tristezza al centro della stanza e la tazza da tè è lì senza riccioli e sbuffi.
E non c'è neanche Silpa, perdìo! Perché Silpa – me ne ero scordato – è morto tre anni fa quando scambiammo i sacchi del tè per sacchi di tabacco. Fu una vera disgrazia, Sultano, che noi commettessimo un simile errore proprio con ciò che tu, con noi tanto buono e magnanimo, volesti donarci in quella occasione.
Non che non ci fossimo accorti dell'errore. Ma Silpa continuava a bere tabacco e a fumare amarissimo tè, dicendo che se il Sultano aveva disposto così, così si doveva fare. E ne fu orgoglioso, mio Signore, e di questa obbedienza era così fiero che fu impossibile farlo smettere. Ma ne morì in capo a sei mesi ed io non ti avrei fatto perdere tempo con questa lunga e triste storia se non fosse che tu prenderai questo piccolo apologo come metro e misura dell'affetto dei tuoi sudditi lontani.
Lontani, ma più fedeli di certi a te tanto vicini. Del resto, non brilla forse la luce del sole sulle vette distanti e solitarie prima che nel fondo delle valli dove sono le popolose città? E non sei tu quella luce che fa alte le cose?
Non sei tu? Non sei tu?
Di certo non era Silpa quello che io mi trovavo davanti. Lo vedevo vivo sulla seggiola, ma non era lui, né era un fantasma quello che succhiava avidamente un ovetto di gallina che teneva attaccato alle labbra.
Ma non potetti desistere dal dire: "Non sei tu, Silpa?". E mentre lo dicevo, proprio mentre le parole uscivano dal pensiero prendendo la via dell'aria, ricordai. Ricordai all'improvviso il funerale di Silpa.
Quello, seccato dalla sciocca domanda e anche più dall'uovo finito, mi disse: "Sono Sulpa, il fratello di Silpa".
Era vero, era Sulpa il gemello. Capitava che Silpa ne parlasse qualche volta, come per vantarsi di essere due volte sulla terra, ma più spesso con il tono di uno a cui manca qualcosa.
Diceva infatti: "Se ci fosse Sulpa, le cose andrebbero diversamente!". E si toccava la punta del naso arrossato dal tè con la punta della pipa in cui bruciava - credeva lui - un tabacco amarissimo.
Questo Sulpa è in tutto e per tutto uguale al fratello, che Dio l'abbia in gloria, solo che questo respira e non fuma, e se beve qualcosa beve solo acquavite e del tè dice peste e corna, perché è fatto con l'acqua che lui detesta.
Fui contento di rivederlo lì. Erano anni che non ritornava al villaggio ed io m'ero quasi scordato di lui, benché ogni volta che vedessi Silpa mi sembrava di ricordare una persona che gli somigliava.

11 agosto 2009

Al Sultano Cheelì -1

Mio amatissimo Sultano

Mio amatissimo Sultano,
in qualità di custode di questa provincia che tutta vi appartiene, vi mando il resoconto dei fatti più importanti occorsi al popolo e alle cose che vi devono obbedienza e che vi offrono la loro devozione e il loro profitto.
Salute e prosperità, mio Sultano!
Il governatorato di Colanskij, come già vi è noto, ha avuto quest'anno un mite inverno che non se ne vedeva uno di tal fatta da tempo immemorabile.
Interrogati da me, alcuni anziani dei villaggi giurano che dai tempi del Sultano Agonij non si vedeva una cosa del genere e che, essendo stati quelli tempi di grandi ricchezze e pace duratura, senza dubbio saranno così anche i tempi a venire.
Questo l'auspicio tratto dagli anziani che qui comunico perché possiate trarne augurio e affinché vi renda chiaro in che modo tutti qui collegano il vostro nome a quanto di maggior bene possa esserci al mondo.
Mio amatissimo Sultano, purtroppo devo qui aggiungere ai fiori del futuro le note del presente e dirvi che le vostre vigne hanno molto patito la gran secchezza della stagione e che le gemme ora sono stenterelle a farsi largo sui legni più vecchi, come che questi fossero stati più rapidamente induriti dalla mancanza di acque.
In alcuni punti le viti non mostrano alcun segno di attività. Cadute in un sonno profondo ma non morte, stanno con quella loro aria un po' perplessa e un poco sofferente sotto questo sole che non le ignora.
Anzi, sembra cercarle a bella posta e su di esse più volentieri distendersi, essendo tutte disposte nella posizione a lui più favorevole. Fu il Sultano vostro nonno a volerle piantate sulla via più soleggiata. E ciò fece a ragion veduta, che sempre hanno prosperato con frutti dolci e forti a un tempo. come bene sapete, se è vero che sulla vostra tavola sempre un vino di Colanskji è tra quelli serviti.
Ma pare che quest'anno ciò non giovi né a loro che ne patiscono, né a me cui con molto onore furono affidate in custodia ed ora ve ne devo dare un così triste resoconto e ragione.
E' la terra, mio Sultano, la terra che non vuole più nutrirle e il sole che non vuole più lasciarle!
A causa del gran secco le zolle hanno cominciato a ritirarsi dai fusti, dove prima si è indurirta e poi spaccata. I fusti non sono così saldi al terreno come un tempo. E per quanto ciascuno di essi sia saldamente legato da salici al suo palo, ora a toccarli dondolano avanti e indietro come giovani ballerini scatenati in una danza scomposta che non rallegra a vedersi.
Ma pare che questo strano carattere dell'ultimo inverno non abbia solo scosso le radici dei nostri vigneti.
Credi a me, mio Sultano, quando dico che molte volte si è stentato a trovare qualcuno dei nostri uomini per fare i lavori nelle tue stalle. Tu sai che il nostro governatorato non ha mai avuto problemi con i contadini. Il solo tuo nome li ha sempre spinti a dare il meglio di sé. Il rispetto devoto che essi ti portano è leggendario, lo sai. Sai anche che da Iruk stessa molte volte i fattori sono venuti fin qui per cercare manodopera, per quanto Iruk sia città popolosa in cui non mancano forti e giovani lavoratori.
Tuttavia, Signore, per via della mitezza stessa dell'aria pare che stavolta gli uomini abbiano dimenticato le loro migliori qualità, lasciandosi andare più ai piaceri offerti dalle donne che a quelli di un lavoro portato a termine.
E' vero che i contadini si sono spesso spostati in gruppi numerosi ed entusiasti verso Iruk. Sciami verso il dolce e segreto favo, se ne andavano all'imbrunire verso al città per far ritorno solo dopo giorni. Certamente felici ma inabili alle opere.
Iruk è città di onesti cittadini, ma le sue strade sono troppo piene di case amorose e tanto a buon mercato che chiunque può concedersi un giorno e una notte di piacere per pochi gaslìm.
Così, quando sarebbe stato necessario deviare un corso d'acqua lì lì per perdersi, o costruire una cisterna, non era possibile trovare chi lo facesse.
Non pensare che io abbia rinunciato alla soluzione di questi problemi fermandomi alla prima difficoltà. Ho fatto quello che ho potuto e tu stesso potrai giudicare se qualcosa è stata trascurata. In tal caso, mio amatissimo Sultano, cada la tua giusta e facile punizione su di me, lascia a Dio solo la fatica della clemenza.
Dunque, non potendo fare affidamento sugli uomini più giovani, ho chiesto aiuto dove potevo.
Tu sai che Machili e Fiodj sono troppi vecchi per alcunché. Machili poi ha perso una gamba proprio l'anno scorso durante lo spostamento del mulino quando la pietra della macina cadde dal traliccio che la sorreggeva. Allora, e che terribile giorno fu quello, avemmo anche due morti: Achì Russù, di anni 20 e Sed Alì suo padre, in età di 37. Tutti e due molto validi anche se uno aveva perso la mano destra giorni prima mentre cercava di sollevare la pietra della macina centrale e l'altro avesse ormai perduto l'udito perché punto in testa da qualche insetto mentre dormiva nei campi di erba medica. Ecco perché non si accorse della grande pietra che rotolava alle sue spalle. Sventurato, a nulla valsero anche le nostre grida di pericolo imminente.
Non ho ritenuto di chiedere aiuto al povero Andrei. Conosci la sua storia disgraziata. Da quando gli è crollato il tetto della casa per il forte vento dell'estate di due anni fa, pare essere poco sano di mente. Va in giro a chiedere a chi incontra, se per caso hanno visto il suo tetto posato sulla cima di un albero. Qualunque sia la risposta, egli chiede dove sia l'albero e quanto alto e quanti frutti ci siano sopra e se sopra ai frutti non ci sia per caso il suo tetto. E va così, in un giro di domande che non ascoltano risposte, sempre mordendosi la coda, per così dire.
Come vedi, mio Signore, la cosa è più difficile di quanto sembri, perché anche a voler fare un lavoro da niente, bisognerebbe prima risolvere i cento problemi di chi dovrebbe aiutarti.
Non ho potuto far altro che bussare alle porte di Silpa, Corenti e Maggiorenti. Dei primi due avrai certo nota la storia, sono i due falegnami che diedero al lavoro molto del loro tempo e nove dita in due.