7 settembre 2009

Al Sultano Cheelì - 2

Silpa e Sulpa

Dico questo, mio Sultano, sperando che tu non rida di me e non chiuda qui la lettura di questo resoconto credendomi pazzo.
Ma quello che affermo il tempo lo giustificherà.
Ecco – mi ero detto – solo questi tre uomini potranno aiutarmi. Mi metto di buon mattino la giubba pesante, la zappa – come sai – è sempre dietro la porta, faccio appendere il vessillo con lo stemma della tua famiglia onorata a un bastone che uso per andare a funghi e, così preparato, vado finalmente alla casa di Silpa, certo di trovarlo dove sempre è, accanto al camino fumante, con la pipa fumante in una mano e la tazza di tè bollente nell'altra, avvolto da spire di vapore e fumo che lo fanno sembrare un fantasma.
E infatti così è, lui è lì. Ma la pipa è spenta, il caminetto senza carboni ardenti è un buco nero di tristezza al centro della stanza e la tazza da tè è lì senza riccioli e sbuffi.
E non c'è neanche Silpa, perdìo! Perché Silpa – me ne ero scordato – è morto tre anni fa quando scambiammo i sacchi del tè per sacchi di tabacco. Fu una vera disgrazia, Sultano, che noi commettessimo un simile errore proprio con ciò che tu, con noi tanto buono e magnanimo, volesti donarci in quella occasione.
Non che non ci fossimo accorti dell'errore. Ma Silpa continuava a bere tabacco e a fumare amarissimo tè, dicendo che se il Sultano aveva disposto così, così si doveva fare. E ne fu orgoglioso, mio Signore, e di questa obbedienza era così fiero che fu impossibile farlo smettere. Ma ne morì in capo a sei mesi ed io non ti avrei fatto perdere tempo con questa lunga e triste storia se non fosse che tu prenderai questo piccolo apologo come metro e misura dell'affetto dei tuoi sudditi lontani.
Lontani, ma più fedeli di certi a te tanto vicini. Del resto, non brilla forse la luce del sole sulle vette distanti e solitarie prima che nel fondo delle valli dove sono le popolose città? E non sei tu quella luce che fa alte le cose?
Non sei tu? Non sei tu?
Di certo non era Silpa quello che io mi trovavo davanti. Lo vedevo vivo sulla seggiola, ma non era lui, né era un fantasma quello che succhiava avidamente un ovetto di gallina che teneva attaccato alle labbra.
Ma non potetti desistere dal dire: "Non sei tu, Silpa?". E mentre lo dicevo, proprio mentre le parole uscivano dal pensiero prendendo la via dell'aria, ricordai. Ricordai all'improvviso il funerale di Silpa.
Quello, seccato dalla sciocca domanda e anche più dall'uovo finito, mi disse: "Sono Sulpa, il fratello di Silpa".
Era vero, era Sulpa il gemello. Capitava che Silpa ne parlasse qualche volta, come per vantarsi di essere due volte sulla terra, ma più spesso con il tono di uno a cui manca qualcosa.
Diceva infatti: "Se ci fosse Sulpa, le cose andrebbero diversamente!". E si toccava la punta del naso arrossato dal tè con la punta della pipa in cui bruciava - credeva lui - un tabacco amarissimo.
Questo Sulpa è in tutto e per tutto uguale al fratello, che Dio l'abbia in gloria, solo che questo respira e non fuma, e se beve qualcosa beve solo acquavite e del tè dice peste e corna, perché è fatto con l'acqua che lui detesta.
Fui contento di rivederlo lì. Erano anni che non ritornava al villaggio ed io m'ero quasi scordato di lui, benché ogni volta che vedessi Silpa mi sembrava di ricordare una persona che gli somigliava.

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