29 settembre 2009

Al Sultano Cheelì - 9

La vedova

Camminammo non poco per raggiungere la casa che era stata di Sulpa. Dovemmo attraversare un ruscello poco profondo per evitare un giro troppo lungo e l'ultima parte fu tutta una salita verso la cima dove c'era la casa.
Corenti non fece che bestemmiare per tutto il tragitto, lamentandosi di ogni cosa gli capitasse sott'occhio: l'acqua, le pietre, le spine, l'aria. Ogni cosa, insomma.
Sulpa non parlava e nemmeno a me venne in mente di aggiungere parole al suo silenzio.
Un cane ci abbaiò contro non appena fummo a poco distanza dalla casa. Uno spiazzo ben tenuto le stava davanti e vi giravano tutti quegli animali di bassa corte che fanno ricche queste case di campagna e le tengono sempre vive di suoni e di movimento.
Una donna che rimestava in un secchio si voltò verso di noi cercando di riconoscerci.
Non potendo darci un nome tra quelli che conosceva, ci chiese chi stessimo cercando.
"Non cerchiamo nessuno. Sono l'intendente del Sultano, del governatorato di Colanskji. Dateci da bere, buona donna".
Agitai il bastone con il vessillo a chiarire il concetto e fugare ogni incertezza. La donna capì, ci fece sedere su un sedile di pietra e sparì in casa. Quando ricomparve aveva una brocca d'acqua e tre bambini che le giravano intorno.
Corenti, come sempre gli accade quando vede una donna, si ritrovò con la lingua sciolta. Cominciò a chiedere notizie sulla produzione della zona e se la siccità era stata forte, se c'era produzione di ortaggi, e quale i lavori più urgenti da fare. "Occorrono pozzi? Un ponticello sul fiume non sarebbe poi comodo a tutti?". Disse, a questo riguardo, che avremmo fatto sapere tutto al Sultano. Del che io mi vergognai, ma l'acqua era fresca e tutto passava in subordine.
Ed ecco che la donna ci fa una relazione come solo i contadini della nostra amata terra sanno fare. Dice che le cose peggio non potrebbero andare, che il gran caldo non ha reso possibile nessun raccolto, che le piante sembrano morte appena nate e nate da poco prima di morire definitivamente senza aver dato nessun frutto. Una terra senza giovinezza e senza maturità, insomma, che dio la maledica!
Hai pomodori piantati? Fanno i fiori e il vento caldo li fa cadere. Se pianti patate ci pensano i topi a lasciarti solo le foglie. La vigna la mangiano i cinghiali e quello che lasciano è buono per farci un decotto e non certo per dare da bere agli uomini assetati quando a sera fanno ritorno dalle terre più lontane, se . "No - dice la donna - quest'anno era meglio non perderci il tempo con la terra e starsene a guardare la malora generale senza darle la fatica delle braccia".
L'anno precedente, invece, era stato abbastanza buono. Perché l'anno precedente, almeno, qualcosa s'era raccolto. No, non c'era paragone, anzi, decisamente un'annata discreta era stata. Insomma, mio Sultano, i soliti discorsi che tutti i contadini della tua terra ripetono ogni anno da anni e forse secoli o comunque tutte le volte che sospettano di dover tirar fuori qualcosa. E' brava gente che vive nell'anno precedente.
Terminata questa litania, Corenti dice che ad ogni modo le donne della zona sono le più belle che lui abbia mai visto, e che sono il fiore profumato di questo deserto doloroso. Un poeta... E lo dice così, senza che la frase abbia nessun nesso logico con il discorso che si sta facendo.
Ma che sia un lampo in un cielo senza nubi la signora non lo vede, anzi deve trovare la cosa coerente a sufficienza, infatti si prende il complimento per buono e si propone di offrirci qualcosa da mangiare. "Ma una cosa alla buona, che in casa non c'è molto" ci avverte.
Diavolo di Corenti! Ecco che strappiamo a questa annata miserabile che sembra destinarci ad una carestia senza precedenti un gran pezzo di pane ben cotto e peperoni, olive, fagioli e insalata e un pezzo di formaggio dall'ottimo aspetto e di miglior sapore, per giunta un salame così piccante che la lingua fatica a sentire i denti in bocca. Tutto in abbondanza. Non manca una seconda brocca, stavolta piena di vino. Forse un po' amaro, ma buono.
Corenti, che probabilmente punta addirittura al dolce, si spertica in complimenti ad ogni boccone. I peperoni sono cotti come nessuno mai li ha saputi cuocere, l'insalata sembra tagliata dalle mani di una fata tanto sono sottili e croccanti le foglie sotto la lingua, le olive sono conciate senza essere dure e senza essere troppo mosce. E qui ammicca, ah se ammicca.
"Porto qualcosa anche per il vostro amico? Avrà fame anche lui" chiede la donna. Ci accorgiamo che Sulpa non è con noi e si è perso quella colazione.
"Vado a cercarlo io" e lascio che Sulpa intrattenga la donna come gli pare, chiacchiere non gli mancheranno.
Giro intorno alla casa ed eccolo lì. L'albero è davvero grande e ci sono sul serio gli uccelli che vanno e vengono, incuranti dell'altalena che due corde tengono sospesa con Sulpa che ci sta a gambe tese, gli occhi chiusi dentro chissà quale ricordo o chissà quale trionfo che gli stampa sulla bocca un sorriso mentre i bambini lo spingono di gran carriera verso il cielo aperto.
Mio Sultano, dicono che l'estasi sia uno stato di grazia di breve durata, una specie di pesce che lampeggia sul fondo scuro del fiume facendosi catturare solo dall'occhio del pescatore che si annoia nell'attesa. Evidentemente quello di Sulpa era destinato a prolungarsi un po' di più.
A turno i ragazzini lo spinsero per lungo tempo senza che la sua faccia mutasse aspetto. Il sole cadeva dietro le colline e sull'albero gli uccelli sembravano prepararsi alla notte. Se ne erano concentrati parecchi tra i rami e in un frastuono infernale si preparavano al silenzio della notte.
Aspettai che Sulpa scendesse dall'altalena. Poi insieme dovemmo aspettare che Corenti scendesse dalla giostra della donna che aveva spinto la sua cortesia oltre ogni previsione. Perché, mio Sultano, l'ospitalità delle tue genti è veramente senza limite da queste parti.
Quando tutti i dondolii furono finiti, ci avviammo inseguiti per un bel pezzo dalle voci dei bambini che salutavano Sulpa.

Al Sultano Cheelì -8

La casa di Sulpa

Era tempo di fermarsi e mangiammo qualcosa ciascuno per suo conto all'ombra di una pianta.
Sulpa invece s'era messo a un canto della strada e guardava incantato fisso ad un punto.
"Che c'è Sulpa? Che stai guardando?"
Mi fece un cenno con la mano in direzione di una collina sulla cui cima si intravvedeva una costruzione bassa e larga. Era probabilmente una casa di pastori o un semplice ricovero per le bestie, a giudicare dalle dimensioni del fabbricato.
"Un ricovero per il bestiame… Ne abbiamo visti tanti fino ad ora." dissi.
"Be', quella era casa mia. C' ho vissuto da ragazzo." disse Sulpa. "Guarda il tetto di quanti colori è. Sembra un aquilone. Non so quante volte l'abbiamo riparato io e Silpa. Un'estate ci fu una tempesta che ce ne portò via quasi una metà. Passammo tre giorni a cercarne i pezzi ancora utilizzabili tutt'intorno la casa, sparpagliati come una manciatina di sale. Eh, il posto è bello ma quando tira il vento è sempre un problema. Quella parte di tetto che vedi più rosa, là, sulla destra, quella è fatta con le tegole della stalla di Pirincip, un nostro parente che viveva in fondo all'altra valle. Questo Princip, che noi chiamavamo zio Prin, lasciò la terra e tutto ciò che aveva, bestiame e piante, all'improvviso".
"Nel senso che partì?" chiesi poco curioso del destino dello zio, ma più per cortesia.
"Non se ne sapeva nulla. Non se ne è saputo più nulla dalla sera alla mattina. Le sue cose sono andate in malora. Per un po' abbiamo pensato che sarebbe tornato, ma niente. Così io e Silpa una volta siamo arrivati fino a quella specie di catapecchia dove viveva e abbiamo fatto un carico delle poche tegole ancora utili, o di quelle che erano rimaste perché la gente lì vicino si era già servita. Degli attrezzi e degli animali neppure l'ombra, ovviamente."
Alzando lo sguardo al cielo tutto preso dal sole, Sulpa aggiunse "Proprio così, sparito da un giorno all'altro. Partito o solo sparito, chi lo poteva dire? Chissà, forse il vento di tutte le tempeste s'era portato via zio Prin tutto intero."
Automaticamente guardai anche io nel cielo, come se da un momento all'altro potessi vedere che fine avesse fatto questo zio aspirato nelle altezze del cosmo e risolvere con un colpo di fortuna il segreto che lo avvolgeva. Niente altro che un cielo con un sole abbagliante, una nuvola piccola e chiara appoggiata in fondo alla scena sopra la fila di colline che avevamo davanti.
Feci per muovermi, considerando che il racconto fosse finito. Ma Sulpa mi mise la mano sul braccio per fermarmi.
"E l'albero grande, lo vedi l'albero grande? L'ho piantata proprio io. Era solo una ghianda messa in una vecchia scarpa con della terra. Era una piantolina con una forza straordinaria. In pochi mesi era già alta così" e mise la mano a mezz'aria come stesse accarezzando un cane.
"Guarda adesso che pianta! Ci stavo attento tutti i giorni: acqua, terra, un po' di letame. Poco per volta cambiavo il contenitore finché fu pronta per la terra aperta. La difendevo dalle formiche e dal maiale che ci si voleva strofinare la schiena. Mi ero convinto che senza di me non potesse farcela. Pensavo che saremmo cresciuti sempre assieme. Uno necessario all'altra."
"Pare che se la sia cavata bene anche da sola" dissi.
"Pare anche a me" aggiunse deluso Sulpa. "Eppure siamo stati bene assieme. Aspettavo solo che crescesse per metterci un'altalena o farmici un rifugio. A volte mi immaginavo che sarebbe stata il mio miglior riparo alle piogge o il mio posto preferito per la caccia ai nidi. Poi un giorno è tornato".
"Ma chi?"
"Lo zio Prin. Bussano alla porta ed eccolo lì sull'ingresso, tutto ben vestito, quasi con un'aria da signore. Una tunica ben rifinita, una grossa borraccia a tracolla e per completare l'opera e la nostra meraviglia anche un fucile sulla spalla. Allora mio padre gli chiede cosa ci faccia dalle nostre parti, con un tono un po' infastidito tanto che io e Silpa ci fermiamo dove siamo. Perché stavamo per corrergli incontro felici di rivederlo. E lui fa per entrare, ma anche mia madre gli dice di restare dov'è. Briganti in casa non ne vogliamo, gli dice. Dice anche che tutta la famiglia ha vergogna di lui. Capisci? Un brigante in carne ed ossa alla porta della nostra casa e per giunta è lo zio Prin, uno che gli potevamo tirare i baffi e che adesso ci potrebbe tirare il collo a tutti e quattro quanti siamo nella cucina. Io e Silpa non possiamo credere a quello che vediamo perché dei briganti abbiamo sentito parlare senza averne mai avuto un'idea chiara. Sappiamo cosa fanno, sappiamo che è gente violenta. Quando Silpa mette il dito nella pentola prima che siamo tutti a tavola e se lo lecca di gusto mia madre gli dice che è proprio un brigante, proprio così.
Allora mi passa per la testa che lo zio Prin sia venuto a reclamare per le sue tegole e a lamentarsi del nostro furto. Vedrai che adesso mi dice che sono un lurido porco ladro, penso tra me e me e mi metto più dietro a mio padre. Ma i briganti sono così, è gente che prende la roba degli altri senza chiedere il permesso. Quindi zio Prin non può mettersi a fare tante storie per qualche tegola proprio con noi che siamo suoi parenti. Ma un brigante non si lascia fermare dalle parole di una donnetta qualsiasi e dalla domanda di un uomo disarmato.
Entra in casa e si siede al tavolo, si serve una sorsata d'acqua dalla brocca e per giunta si colma la borraccia che ha al fianco. Dice solo poche parole: grazie dell'acqua. Ma lo dice tra i denti e con un sorriso storto senza allegria, e io penso che si riferisca all'acqua che gli è piovuta nella casa senza tegole e mi metto ancora più dietro a mio padre. Invece lui mette due monete grosse accanto alla brocca e sparisce, questa volta per sempre."
"Bene, sarà meglio riprendere il cammino" dico io.
"Monete d'oro" dice Sulpa e allora mi fermo dove sono.
"Due monete d'oro con la faccia di Supàr Parìd che brilla di luce. Una roba mai vista in casa mia. Fu con quelle monete che mio padre comprò l'asino che ci avrebbe portati via di qui. E due agnelli figli della stessa pecora che mio padre chiamò Sulpa e Silpa, proprio come noi, creando qualche confusione fin quando non decise di non chiamarli più per nome."
"E poi? Che ne è stato del brigante?"
"Ecco, in verità mio padre aveva dato lui dei soldi a zio Prin ai tempi in cui le cose non gli andavano bene. Ma mio padre si era preso a garanzia la sua casa, mettendolo alla porta e destinandolo a vivere in quella catapecchia che poi lui aveva abbandonato all'improvviso. Zio Prin era tornato sotto forma di brigante a saldare il debito e a riprendersi caparra e garanzia, pagando certamente molto più di quello che aveva avuto a suo tempo. Seppi poi che mio padre avrebbe voluto tenersi la casa e restituire il di più, ma non ci fu nulla da fare. Zio Prin volle prendersi la soddisfazione di vederci andar via. Così dovemmo lasciare la casa mentre lui ci guardava partire."
"Ma che diavolo!" dissi indignato.
Ma Sulpa si fece una risatina amara come non gli avevo mai visto fare.
"Chi fosse il diavolo me lo sono chiesto anche io, mio padre o zio Prin? Dove era cominciato il male? Chi aveva rubato di più? Non saprei dire. Ma il mio albero è ancora lì e, a giudicare dagli uccelli che ci girano intorno, ci devono essere molti nidi. Ma forse nessuno ci ha mai giocato sopra."
"Andiamo a vedere" dissi senza pensarci troppo su.

Al Sultano Cheelì - 7

Via dalle donne

Chi guarirà l'uomo dai dolori che una donna, anche qualsiasi, può infliggergli? Per quanto ci fossimo fatti coraggio tra noi mostrandoci sprezzanti e indifferenti, le parole della Gagliova battevano ancora nelle nostre orecchie e picchiavano sul nostro amor proprio ancora con più forza.
Incamminati sulla strada maestra, ce ne andavamo in fila silenziosamente tirando di tanto in tanto qualche calcio alle pietre, come muli insoddisfatti che portano un peso non appropriato alle loro forze.
Mi sono spesso chiesto, mio Sultano, quale sia l'aria e la luce del giorno che possano cancellare del tutto i segni di una notte con una donna. La giornata che avevamo davanti era impastata di bel tempo, il vento aveva tirato via dal cielo ogni nuvola. Un poco di pioggia aveva smaltato foglie e tronchi degli alberi. Era solo colore, quell'acqua non era certo abbastanza per irrigare la terra e adesso che il sole era ricomparso forse avrebbe solo steso un altro velo di arsura sul terreno.

Corenti fu il primo a spezzare le parole del nostro disappunto. “Che cosa vuol dire che uno ha la miccia corta? Quella strega ha detto che Sulpa ha la miccia corta e la polvere bagnata.”
“Veramente si riferiva a te, Corenti. Non cambiare le carte in tavola”, ha puntualizzato Sulpa.
“Ma che dici, mentitore? Credi di poter fare carrozzine fasulle anche con le parole?”
Da qui in poi, mio Sultano, il discorso si è fatto troppo acceso e poco adatto alle tue orecchie che sono abituate a ben altro. Io stesso ho tralasciato di seguirle. Mi sono invece messo qualche metro più avanti per non sentire. Ero infastidito dalla lite verbale di Corenti e Sulpa, ma avevo in mente altro. Dove avremmo trovato uomini per lavorare le terre di Colanskji? Chi mai ci avrebbe aiutato?

Al Sultano Cheelì - 6

Dopo il sogno

Mio Sultano, che tu non abbia ad offenderti se ti ho sognato con tanta familiarità. Se questo offende la tua persona o urta in qualche modo la tua dignità, sii severo con me. Lascia che io apprenda le buone maniere e come si conviene, a un servo, trattare il padrone anche nel sogno.
Ma se dovessi raccontarti favola più bella o delirio più splendente, sempre questo sogno ti racconterei.
Vedo però che a più tristi cose è destinata la mia scrittura. Altro è l'argomento del resoconto che scrivo per te. Forse ho troppo divagato. Abbondanti sono le parole dello sciocco.
Ma è bene che tu sappia fino in fondo il dove e il come di ogni cosa, perché è solo quando l'artigiano passa l'ultimo colpo di vernice che il suo lavoro di giorni è ben visibile. Solo allora esso splende, finalmente tratto fuori dalla bottega oscura e dalle forme approssimative della materia, come l'anello al dito di una donna.

Passammo così qualche ora. Sulpa ebbe un sogno agitato e continuava a muoversi da un seno all'altro dell'ostessa senza trovare la posizione giusta che gli avrebbe donato la serenità. Corenti russava della grossa col capo poggiato ai capelli che la donna teneva raccolti in due grosse trecce. Curiosamente, così messo, Corenti sembrava un coniglio con le orecchie abbassate.
Dormiva abbandonato, compagno solo di se stesso.
Fummo svegliati dal rumore del vento fattosi di nuovo forte. Ma la tempesta la prendemmo dall'ostessa che s'era svegliata nervosa e ci mise alla porta con modi sgarbati dopo aver preso il dovuto dalle mani ritrose di Corenti.
"Ma che ha?" chiese Sulpa.
Secondo Corenti non eravamo stati un granché e la signora non si era scaldata a dovere.
Allora Sulpa ricordò che aveva i suoi anni, che da bambino non era stato mai veramente in salute, che bisognava considerare le infamie patite in guerra e le ingiurie dei lavori nei campi.
Trovammo giusto ogni suo ragionamento. Del resto, le cose che valevano per lui valevano anche per noi.
Giurammo seduta stante di non mettere mai più piede in quella locanda. Con l'animo rinforzato da una decisione che in fondo non ci costava nulla, riprendemmo la strada che ci avrebbe portato lontano alla ricerca di uomini da portare nei tuoi campi.

17 settembre 2009

Al Sultano Cheelì - 5

Il sogno

E tu mi chiederai quanto è vero il sogno. E a me piacerebbe poterne censire una parte almeno, per vedere quante volte la tua immagine è compagna delle notti dei tuoi sudditi.
Perché tu stesso hai scelto me, nel sogno, per tua compagnia in un lungo e quieto passeggiare fatto assieme in un giardino mirabilmente ordinato di viottoli e siepi.
C'era un'aria sottile come di prima mattina che illuminava l'ordine del mondo, la giustezza di ogni ramo, l'esattezza di ogni sasso che tu hai voluto appoggiare sulla terra.
Tu eri vicino a me silenzioso, ed ecco che siamo al termine del giardino. Ci fermiamo in un ampio belvedere cintato di statue. Ci sediamo vicini e io mi perdo subito nella mia malinconia. Ti rifaccio il racconto di quello che ho scritto: dell'inverno senza piogge, delle viti ballerine e storte, della terra aperta e senza frutti, le stalle ancora tutte da riparare.
E più parlavo più sentivo che ero preda di un'ansia che non conosceva nessun bene.
Cercavo di non piangere ma non devo esserci riuscito del tutto perché tu mi hai detto: "Non è con quest'acqua che rifiorirai" e mi hai messo la mano sulla gamba. Seppi così cosa vuol dire, alla mia età, avere ancora un padre. E mi hai mostrato col dito cosa c'era oltre la balaustra.
Allora vidi il grande azzurro e le vele turcomanne che l'infiorano d'ogni colore.
Poi, tutti e due facemmo merenda.

Al Sultano Cheelì - 4

Alla locanda del Monco

Preso dall'entusiasmo di questi due bevitori canterini che non mi lasciano parlare e non si lasciano rimproverare, decidiamo su due piedi di festeggiare l'incontro. Allora si torna tutti assieme alla locanda per bere.
Ce n'è, lungo tutte le strade che portano al cuore della tua grandezza, o Sultano, un gran numero. Ma questa locanda, detta del Monco, non è certo tra le più degne d'essere menzionata. Ha piccola la porta di ingresso, piccoli sono i due ambienti che ospitano viandanti e pastori di passaggio. L'interno è sempre avvolto nell'oscurità per via delle ridotte dimensioni delle finestre che danno sulla via principale. Eppure...
Sulpa conosce l'ostessa, una certa Gagliova con due gambe tonde tonde ed un petto, buondìo, che ci potresti fare l'alba dentro e non riuscire a vedere il sole che sorge.
Questa Gagliova è una buona donna. Ha sempre lavorato sodo, mio Sultano, e ha sempre versato la tassa di mescita e distillazione così come tu hai imposto. Lei mi conosce perché sono io che riscuoto i tributi in questa parte dell'isola. Quando mi vede è sempre contenta, perché in me vede qualcosa di te, mio giusto ed onorato signore.
Ci mettiamo seduti ad uno dei tavoli e Sulpa già mesce acquavite nei bicchierini. Fatto ancora più allegro dalla bevanda, Corenti si mette a toccare il sedere all'ostessa che ha due seni che ci potresti far notte dentro senza accorgerti di quando è mezzogiorno.
Gagliova, da brava padrona, ci sta. Lei sa bene cosa fa venire sete agli uomini. E noi ci diamo da fare anche troppo.
Sulpa è fuori di sé dalla felicità. Dice di non sentire i suoi anni, dice anche che le guerre e i giorni di carestia nulla gli hanno tolto, ma l'hanno solo temprato. Quando attacca col suo racconto della guerra delle Due Riviere, io oramai non lo ascolto e non lo sento più.
Dopo diversi bicchierini eravamo tutti e tre sotto le pesanti ali protettrici dell'ostessa. Sulpa s'era attaccato al capezzolo di destra e immaginava di succhiare ancora il suo ovetto di gallina e ciucciava di buona lena. Corenti si dava da fare dall'altro lato e titillava il capezzolo di sinistra facendolo allungare a dismisura. Era felice e credeva di aver ritrovato un coniglietto che nell'infanzia gli era stato carissimo compagno di giochi.
Io, mio Sultano, stavo con la nuca appoggiata tra quei due guanciali e guardavo il soffitto. Meditavo sul tuo buongoverno, pensavo al rispetto che il popolo ti porta e a quanto tu stesso ne mostri a lui, senza nulla tralasciare nella cura del suo bene. Poi, mi sono girato da un lato fissando la mazza con il tuo stenda­rdo e sono caduto nel sonno profondo del desiderio soddisfatto e del vino finito.

7 settembre 2009

Al Sultano Cheelì - 3

In cerca di Corenti

Dopo i soliti convenevoli dei saluti che sembrano scuse, del dove vai e del come stai, del cosa fai e del come mai, gli esposi il mio problema. Disse chiaramente di non poter lavorare lui stesso nei campi, ma che avrebbe certamente potuto accompagnarmi alla ricerca di validi uomini di fatica.
Fu contento di potermi aiutare e così subito uscimmo di casa: io con passo baldanzoso e rincuorato, Silpa spingendo a tutta forza le grandi ruote della sua carrozzina ortopedica.
Quando fummo arrivati al portone della casa di Corenti, Sulpa rimase ai piedi della scalinata che si inerpica nell'androne buio. Andai su.
Busso una volta, busso tre volte e nessuno risponde. Strano, penso tra me e me, a quest'ora di solito Corenti è alla locanda, come mai non apre? Allora decido di andare a vedere se per caso è in piazza o alla locanda, non si sa mai...
Ma quale non fu la mia sorpresa nel vedere che Sulpa non mi aveva aspettato! Raggiungo la piazza ma non c'è nessuno, solo la piazza spazzata dal vento del primo mattino, carte che volano un po' dappertutto e fanno tristezza. Fogli che vanno nel vento e non hanno intorno nessuno. Perdo tempo tra vicoli e strade che alle fine sboccano tutti nella stessa piazza. Qui giro lo sguardo intorno e vedo la sedia di Sulpa che taglia la piazza da una parte all'altra spinta dal vento di gran carriera. E vedo bene che Sulpa non è sulla sedia.
Mi metto a correre per agguantare quello strumento che pare mosso da un istinto infernale e sta per infilarsi un una via secondaria.
La sedia avanti e io dietro, mio Sultano, che non sono più l'agile ragazzo che fui, benché per poco tempo, un tempo. Faccio fatica a starle dietro, e come una indiavolata ha imboccato una discesa e io ho paura, paura di cadere e di rompermi l'osso del collo e finire per sempre seduto su un attrezzo che rotola malinconico sulla terra.
Questo pensiero mi taglia il fiato e allora mi fermo. Non appena il mare dell'affanno ha finito di uscirmi dal naso con tutto il suo fragore, comincio a sentire i suoni del mondo. Prima quello del vento, poi come il botto di qualcosa di legno che si fracassi su pietre (e capisco che pure la sedia è arrivata al suo buon fine) poi la voce di qualcuno si è messo a cantare. Infatti, a squarciagola, con l'impudente felicità degli ubriachi, Sulpa e Corenti vengono fuori abbracciati, che non si sa chi regga chi. Per un attimo tutto il vicolo è una cantina. Il vento sa solo di alito caldo e di vino.
E' bello sentire le voci degli uomini quando per troppo tempo si è solo ascoltato il vento che fischia negli strumenti dei vicoli stretti, dei fili tirati tra casa e casa, nelle mille bocche delle tegole sopra i tetti.
“Crepa!” mi dice Sulpa appena mi vede. E lo dice perché sono sorpreso che sappia star ritto all'impiedi da solo.
In effetti la sedia era di Silpa…

Al Sultano Cheelì - 2

Silpa e Sulpa

Dico questo, mio Sultano, sperando che tu non rida di me e non chiuda qui la lettura di questo resoconto credendomi pazzo.
Ma quello che affermo il tempo lo giustificherà.
Ecco – mi ero detto – solo questi tre uomini potranno aiutarmi. Mi metto di buon mattino la giubba pesante, la zappa – come sai – è sempre dietro la porta, faccio appendere il vessillo con lo stemma della tua famiglia onorata a un bastone che uso per andare a funghi e, così preparato, vado finalmente alla casa di Silpa, certo di trovarlo dove sempre è, accanto al camino fumante, con la pipa fumante in una mano e la tazza di tè bollente nell'altra, avvolto da spire di vapore e fumo che lo fanno sembrare un fantasma.
E infatti così è, lui è lì. Ma la pipa è spenta, il caminetto senza carboni ardenti è un buco nero di tristezza al centro della stanza e la tazza da tè è lì senza riccioli e sbuffi.
E non c'è neanche Silpa, perdìo! Perché Silpa – me ne ero scordato – è morto tre anni fa quando scambiammo i sacchi del tè per sacchi di tabacco. Fu una vera disgrazia, Sultano, che noi commettessimo un simile errore proprio con ciò che tu, con noi tanto buono e magnanimo, volesti donarci in quella occasione.
Non che non ci fossimo accorti dell'errore. Ma Silpa continuava a bere tabacco e a fumare amarissimo tè, dicendo che se il Sultano aveva disposto così, così si doveva fare. E ne fu orgoglioso, mio Signore, e di questa obbedienza era così fiero che fu impossibile farlo smettere. Ma ne morì in capo a sei mesi ed io non ti avrei fatto perdere tempo con questa lunga e triste storia se non fosse che tu prenderai questo piccolo apologo come metro e misura dell'affetto dei tuoi sudditi lontani.
Lontani, ma più fedeli di certi a te tanto vicini. Del resto, non brilla forse la luce del sole sulle vette distanti e solitarie prima che nel fondo delle valli dove sono le popolose città? E non sei tu quella luce che fa alte le cose?
Non sei tu? Non sei tu?
Di certo non era Silpa quello che io mi trovavo davanti. Lo vedevo vivo sulla seggiola, ma non era lui, né era un fantasma quello che succhiava avidamente un ovetto di gallina che teneva attaccato alle labbra.
Ma non potetti desistere dal dire: "Non sei tu, Silpa?". E mentre lo dicevo, proprio mentre le parole uscivano dal pensiero prendendo la via dell'aria, ricordai. Ricordai all'improvviso il funerale di Silpa.
Quello, seccato dalla sciocca domanda e anche più dall'uovo finito, mi disse: "Sono Sulpa, il fratello di Silpa".
Era vero, era Sulpa il gemello. Capitava che Silpa ne parlasse qualche volta, come per vantarsi di essere due volte sulla terra, ma più spesso con il tono di uno a cui manca qualcosa.
Diceva infatti: "Se ci fosse Sulpa, le cose andrebbero diversamente!". E si toccava la punta del naso arrossato dal tè con la punta della pipa in cui bruciava - credeva lui - un tabacco amarissimo.
Questo Sulpa è in tutto e per tutto uguale al fratello, che Dio l'abbia in gloria, solo che questo respira e non fuma, e se beve qualcosa beve solo acquavite e del tè dice peste e corna, perché è fatto con l'acqua che lui detesta.
Fui contento di rivederlo lì. Erano anni che non ritornava al villaggio ed io m'ero quasi scordato di lui, benché ogni volta che vedessi Silpa mi sembrava di ricordare una persona che gli somigliava.