27 aprile 2009

Autobiografia

Nella foto che qui vedete riprodotta, con scarsa perizia è ritratto Maurizio Marotta. L'ingenuità del ritrattista lo ha obbligato ad assumere un atteggiamento che non gli è consono. Quell'aria di sfrontata guapperia scritta nel sopracciglio moderatamente sollevato e nel distaccato sguardo che vi sottostà, non riflettono la mitezza che fu caratteristica dell'animo suo. La pipa che regge in mano non è stata mai fumata da Marotta, e il copricapo dalla curiosa foggia è solo un oggetto pescato lì per lì nello studio fotografico.
Marotta, in realtà, non ha mai indossato cappelli o berretti, neanche durante il servizio militare (che non ha prestato).

Infine, il fatto che indossi un kilt potrebbe far pensare a remote ascendenze nordeuropee. Ma ciò non è affatto vero. Anche in questo caso la presunzione artistica di chi ha scattato la foto ha fatto scempio della verità per creare intorno al soggetto un'aura falsa e pure scarsamente verosimile.
Comunque non condivisibile da chi ha avuto moto di entrare in confidenza col Marotta o ne ha semplicemente potuto fare la conoscenza.

Tutta la sua esistenza si è consumata all'insegna del fraintendimento.
E ciò era drammaticamente vero sin dall'inizio, allorchè sua madre voleva per forza chiamarlo Mariastella. Mille e più sarebbero gli episodi a suffragio di questo curioso destino. Il Marotta stesso se ne doleva facendo accenno a quelli che chiamò "i piccoli scarti": deviazioni millimetriche dalla verità che finivano per distruggere ogni slancio verso la serietà, la profondità, il buonsenso addirittura..
In una intervista rilasciata poco prima che si perdessero le sue tracce, egli disse: "E' orribile come l'intensità del dramma mi abbia proditoriamente evitato, scansato e scartato per tutta la vita."
Non possiamo dare qui conto di tutta la sequela dei fatti e dei minimi accadimenti che si riferiscono al "fraintendimento", ma ne citeremo soltanto qualcuno a titolo di esempio.
Nel 1989, presso le edizioni Barbablù di Siena, Marotta pubblica un di una trentina di poesie dal titolo "I cappotti morti". Attilio Lolini, esimio animatore della benemerita serie di libretti, scriverà l'unica recensione dedicata al volume facendo riferimento al testo "I cappotti Corti". Quello che doveva essere un esordio letterario autentico, si trasforma in un libro dedicato al farfallonesco mondo della moda...
In aggiunta, in quarta di copertina il libro viene identificato come un supplemento alla rivista "Il gallo silvestre", famosa operetta leopardiana. Il Marotta era felice di poter iniziare la sua avventura di poeta edito sotto l'insegna di cotanto nume tutelare. Purtroppo, per un banale errore di stampa, fu scritto "supplemento al numero 1 de Il Gallo Silvestro", con evidente richiamo fonico al cartone animato del gatto domestico perennemente irretito dalla petulanza dell'uccellino Titti.
Erano piccoli segni - diceva il nostro - che gli logoravano i nervi. Egli stesso notava come il destino si divertisse, con ridanciana intelligenza non c'è che dire, a nascondere gli scarti dalla verità in piccole pieghe, in anfratti, nel piccolo corpo tipografico delle quarte di copertina, appunto.

Nel 1991 viene pubblicato il Primo Quaderno italiano di poesia. Tra i quattro poetini del secondo novecento che lì trovano spazio, Marotta pubblica la raccoltina "Il cielo dai balconi", poi passata alla storia come "Il cieco sui balconi". Quasi una poetica trasposizione de "La gatta sul tetto che scotta".
Diverse le pubblicazioni in rivista: Lengua, La collina, Cenacoli esoterici. Qualche saggetto pseudo-critico su un poetino di nome Franco Ferrara. Sul poeta-poeta Sandro Penna e poco altro ancora.

Abile nell'uso della lingua, precoce talento poetico, indicato come degno epigono di Alfonso Gatto (poeta-poeta originario di Salerno come il Marotta, ma che il Marotta non ha mai letto), Maurizio Marotta consegue la laurea in lettere moderne presso l'Università di Urbino nel 1987, lascia le Marche e fa ritorno a Salerno dove vanta la diretta conoscenza di famosi critici e poeti.
Nella desolata vita della provincia normanno-meridionale, il nostro affascina gli amici nei racconti del bar. Intere notti trascorrono nella magnifica prova di affabulazione e stordimento degli ascoltatori che più che essere cultori delle lettere sono degli ingenuotti.
E' a Salerno (nella cui provincia nacque intorno al 1963) che egli si conquista la fama di poeta in esilio, dicendo che il Comune di Pesaro-Urbino ha bandito lui e la sua progenie dai suoi territori per i secoli dei secoli.
Dante era un dilettante.
Nel frattempo si dedica alla grafica al computer, essendosi accorto che la vena poetica è tanto rapida a venire quanto lesta ad andarsene (un altro fraintendimento?).
Compone disegnini che vengono messi in rete qua e là, ma nessuno se ne accorge (come capita a tutto ciò che è sulla rete).
Passa alla prosa. Compone racconti di varia natura e lunghezza. Non pubblica nulla nonostante le reiterate richieste dell'editoria nazionale e l'esortazione di amici che ritengono di avere a che fare con una buona penna (che si ciba prevalentemente di altri formati).
Per il Teatro dei Piccoli Principi di Firenze scrive il testo "12", una scena teatrale dedicata ai ragazzini. Il testo riscuote un enorme successo. E' tradotto in francese e in fiammingo dopo essere stato tradotto in italiano da un suo amico.

Prima che di lui si perdesse ogni segno di presenza, Marotta stava lavorando a due romanzi: una riscrittura de "Il Cortegiano" di Baldassarre Castiglione, e "Al sultano Cheelì" romanzo epistolare e picaresco.
Tuttavia, ancora oggi, si ritiene che il suo capolavoro sia "Il senso è un imprevedibile volo di mosca", raccolta di brevi prosette che hanno per protagonisti il pittore quattrocentesco Berruguete, Piero il fornaio e il mondo assolato dei cani, più alcune mongolfiere.
A quest'opera ha prestato il suo ingegno grafico anche Oreste Zevola, illustratore napoletano.

Poche sono le altre notizie di interesse pubblico di questo autore prematuramente datosi per disperso. Egli trascorse gli ultimi giorni ad Ercolano dove partorì insieme alla moglie un bambino biondo e bellissimo che non somigliava a suo padre.
La sua casa, lontana dalla zona degli scavi, ma inclusa in quella dei moderni disastri e rovine, è attualmente sede del Museo Provinciale della Provola affumicata.

La foto che lo ritrae e che qui si pubblica è un autoscatto.

22 aprile 2009

Letteratura nel quadrante 7

Era mattina molto presto, le strade erano pulite e deserte, io andavo alla stazione. Quando confrontai l'orologio di un campanile con il mio orologio, vidi che era molto più tardi di quanto avessi creduto, dovevo fare molto in fretta, lo sgomento per questa scoperta mi rese incerto circa la strada da prendere, non ero ancora molto pratico di quella città, per fortuna lì vicino c'era un vigile, corsi verso di lui e,
senza fiato, gli chiesi la strada. Egli sorrise e disse:
"Da me vuoi sapere la strada?"
"Sì", dissi io, "perché da solo non riesco a trovarla".
"Arrenditi,arrenditi", disse lui, e si volse con gran slancio, come fa chi vuole essere solo con la propria risata.

FRANZ KAFKA, Schizzi, parabole, Mursia

Letteratura nel quadrante 6

Dal taschino destro pendeva una pesante catena d'argento con appesa una macchina straordinaria. Gli facemmo cenno di estrarre quello che stava attaccato al capo della catena: si trattava di un globo per metà d'argento e per metà di un metallo trasparente attraverso il quale si potevano vedere strane figure disposte in cerchio. Pensavamo di poterle toccare, ma le nostre dita non andarono oltre quella
materia traslucida. Ci mise agli orecchi quella macchina che faceva un rumore incessante, come quello di un mulino.
Pensiamo che si tratti di qualche bestia sconosciuta del dio che lui adora, siamo anzi favorevoli a questa seconda ipotesi, perché ci assicurò (se abbiamo capito bene quel che ci disse, dal momento che si esprimeva in maniera assai scorretta) che
raramente intraprendeva qualche azione senza prima averlo consultato. L'ha definito il suo oracolo, dicendo che gli indicava il momento idoneo ad ogni azione.

JONATHAN SWIFT, I viaggi di Gulliver

Letteratura nel quadrante 5

Montag scosse il capo. Guardò una parete nuda. Vi era il volto della ragazzina, davvero molto bello, nel ricordo: sbalorditivo, anzi. Ella aveva una faccia sottile come il quadrante di un piccolo orologio visto vagamente in una camera buia nel cuor della notte, quando ci si sveglia per guardare l'ora e si vede l'orologio che ci dice l'ora, il minuto, il secondo, con un silenzio bianco, incandescente, tutto certezza e consapevolezza di ciò che ha da dirci della notte che sta passando rapida oltre, verso ulteriori tenebre, ma anche verso un nuovo sole.

RAY BRADBURY, Fahrenheit 451, pag.18

18 aprile 2009

La rimessa

Ho visto per l'ultima volta le spalle di mio padre in una sera di dicembre. E' stata quella volta lì che mi sono accorto di quanto fossero belle, larghe e forti come le hanno certe volte i ragazzi sugli scogli, un attimo prima di tuffarsi. Notai solo allora quanto spazio prendessero nel vano delle nostre porte e nella nostra vita.
Mio padre non ha mai amato uscire di casa la sera, né le combriccole lavorative vere solo per cene e cenette qua e là, dicendo sempre a tutti di no.
Ha avuto, all'opposto, una sorta di vocazione preistorica a starsene a cuccia appena buio; un poco cercando riparo, un poco per fare il guardiano e vegliare.
Veramente non ricordo bene come fu che cominciò ad andarsene, frettoloso e avvolto dal segreto, quasi ad ogni dopocena. Le scuse cambiavano alle domande di mia madre e una volta era la macchina da spostare, una volta la rimessa da mettere in ordine, un'altra ancora la ricerca di un arnese in giardino che avrebbe prestato, domani, a un amico.
In principio non ci facemmo caso perché queste uscite erano così episodiche che non riuscivano a legarsi l'una all'altra per mettere insieme la forma consistente di un sospetto.
Furono invece l'inclemenza del tempo e la neve straordinariamente abbondante a far prendere corpo alla nostra preoccupazione. Per quanto l'aria di dicembre fosse gelida e come abitata dalle spine, mio padre senza timore si avventurava fuori ad ogni ora.
Io e mia madre restavamo a pulire i vetri della cucina e a spiare fuori, mentre mio fratello che le stava tra le braccia teneva già gli occhi chiusi nel sonno. Da lì vedevamo chiaramente che nessuno era entrato dal cancello né che mio padre ne usciva. Lo scoprivamo invece voltare a sinistra verso la rimessa e sparire dietro la fila dei meli.
A mia madre bastava. Il fatto che suo marito fosse inequivocabilmente solo, ancora nel territorio della casa, era per lei come una consolazione, un parziale risarcimento a quell'angoscia di essere tradita che di certo le aveva attraversato i pensieri.
Non era così, per me. Ho pensato più volte alle sere che avrei voluto seguirlo, andare a spiare perché, tutto ad un tratto, mio padre sentisse il bisogno di andarsene via da noi.
La rimessa, da sempre, è dove le macerie acquistano solidità e resistenza. Lì dentro ho spiato mio padre. L'ho guardato stando chiuso nel mio cappotto, nel gelo di un dicembre inclemente e sfrontato.
Li ho visti tutti e due, lui e quel suo amico, guardando dal finestrino nella rimessa. Mio padre senza camicia, seduto, di spalle. L'altro, invece, non si era tolto nemmeno la giacca. Gli vedevo la nuca spuntare
dal bavero e i capelli bianchissimi tirati all'indietro. Ma non era un vecchio e questo mi sorprese. Era uno della mia stessa età, più o meno venti, venticinque anni.
Così, ho poggiato l'orecchio sul vetro gelato e ho sentito la voce paterna venire dal freddo.
Lui gli chiedeva:" Anche i miei figli, anche loro lo sai, pure mia moglie... Credo di avergli dato quello che avevo, ma un po' di allegria loro non me l'hanno mai data, non me l'hanno ancora restituita... Se sono felici lo sono sempre da soli, per conto loro. E poi, lo vedi anche tu, adesso ho i gerani tutti bruciati dal gelo. Ma hanno stentato sin dal principio quest'anno. Eppure gli ho messo tutto: la terra, la torba, il pietrisco. Neanche l'acqua gli è mai mancata... Che dici, che cosa sarà?"
Parlava di noi con quel tipo in un modo che mi fece dispetto.
Ma il ragazzo non seppe che dire. Ed io ero contento che non gli sapesse rispondere. In quel silenzio mio padre è rimasto sospeso nel suo gesto di domanda, gli occhi puntati sul volto del tipo, la bocca un po' aperta, la cenere sui pantaloni.
Ed è stato allora, proprio allora che mio padre ha levato la mano di tasca, l'ha allungata sulla sua spalla e ha tirato giù.
Quello ha cacciato fuori una lingua rosa come ce l'hanno i gatti e se l'è passata più volte sull'ala tenuta, fino a quel punto, coperta sotto la giacca. Non era molto lunga. E il colore tra il bianco e il beige, come la mollica del pane.
Gli era bastata un'ala fatta di pane per venire fin qui.
Per un poco sono rimasti a guardarsi senza espressione. Poi mio padre ha cominciato, lentamente. Ne prendeva dei piccoli pezzi con due dita, li portava alla bocca e ingoiava.
Non so quante sere mio padre abbia trascorso a piluccare l'angelo, a sabotargli le ali.
Dopo si è alzato. E mio padre ha fatto in fretta a seguirlo come per cortesia, quasi come in un atto di galanteria.
Se ne stavano andando.
Allora avrei voluto dirgli:" Papà, senza che te ne vai con quello, non ti credo. E' uno scherzo che avete preparato insieme per far ridere me che invece adesso ho solo un dolore, vedi, qui, un dolore forte e vuoto che può far male come solo un dente tutto scavato può farlo."
Ma l'angelo gli ha poggiato una mano sul braccio e lo ha fatto voltare.
Mio padre non ha saputo dirgli di no, gli ha ubbidito con gli occhi per terra.
E dopo, l'angelo, incerto nella sua lingua celeste, gli ha detto: "Vedresti, vedresti che ti ci troverai bene."

Letteratura nel quadrante 4

OROLOGI PARLANTI

Chi lo direbbe? Tra gli oggetti dè miei innamoramenti, c'è anche un orologio. Pur nella solitùdine ebbi istanti ancora più solitari. Anche il deserto contiene stese di maggiore desolazione, dove traccia non scorgi di carovana e di belve, orme ed ossa. Studente in una città, nella quale non conoscevo persona e non osavo conòscerne, passavo intere giornate senza uscire di càmera, senza staccarmi dal tàvolo. Per vedere qualcuno, per avere una parola altrùi dovevo farmi malato e mandare pel mèdico. Bisognoso allora di un cuore che al mio si accompagnasse né decidèndosi esso a venire a mè dalla cappa del fumo o dal buco della serratura, lo trovài nell'orologio a pèndolo del caminetto, un orologio napoleònico dal vibrato tic-tac.
E il monòtono monosillàbico bàttito prese tosto modulazioni di lingua.
Era una voce che mi diceva continuamente quanto io bramava di udire "ti amo, ti amo".
E da quell'ora non fui più solo.

CARLO DOSSI, Amori, pag 23, Adelphi

15 aprile 2009

Letteratura nel quadrante 3

REGOLARE L'ORA SULL'OROLOGIO ALTRUI

"L'ora esatta? Buon Dio, amico mio, ma perché insisti? Uno penserebbe che... Ma no, che cos'importa; sarà certamente ora di andare a letto -non ti basta così? Comunque, ecco, se devi rimettere l'orologio, prendi il mio e controlla da solo." E con ciò staccò l'orologio - un orologio di vecchia foggia, straordinariamente pesante - dalla catena, e me lo diede; poi si girò, e attraversando la stanza andò presso la libreria e cominciò ad esaminare i titoli dei libri su uno degli scaffali. L'agitazione a cui era in preda e la sua palese angustia mi sorpresero; sembravano immotivate. Avendo rimesso il mio orologio con il suo, mi avvicinai anch'io alla libreria e gli dissi, "Grazie." [...]
Richiuse l'astuccio con un colpo secco e si rimise l'orologio in tasca. Mi guardò e tentò di sorridermi, ma il suo labbro inferiore tremava e pareva non gli riuscisse di chiuder la bocca. Anche le sue mani tremavano, e lui le infilò, serrate a pugno, nelle tasche della giacca.
Lo spirito audace stava palesemente lottando per sottomettere il corpo pusillanime. Lo sforzo era troppo arduo; cominciò ad oscillare da parte a parte, come in preda alle vertigini, e prima che potessi balzare dalla mia sedia per sostenerlo, le sue ginocchia non ressero ed egli ricadde goffamente in avanti e si abbattè al suolo, a faccia in giù. Io mi lanciai in suo soccorso perché potesse rialzarsi; ma quando John Bartine si leverà noi tutti ci leveremo."

AMBROSE BIERCE L'orologio di John Bartine,
Racconti neri Bompiani.

14 aprile 2009

Letteratura nel quadrante 2

DEUS EX MACHINA: L'OROLOGIAIO


Sulla cornice bianca dello specchio scurito e macchiato, due ganci di
rame, dov'erano state appese le chatelaines delle signore di una volta, erano disponibili a ricevere il mio orologio,che ebbi cura di ricaricare, poiché, contrariamente alle massime dei Telemiti, stimo che l'uomo sia maestro del tempo, che
è la vita stessa, solamente quando l'ha suddiviso in ore, minuti e in secondi, cioè in parcelle proporzionate alla brevità dell'esistenza umana. E pensavo che
la vita ci sembra corta solo perché noi la misuriamo sconsideratamente
alle nostre folli speranze...
Noi tutti abbiamo, come il vegliardo della favola, un'ala da aggiungere al nostro
edificio. Io voglio portare a termine, prima di morire, la storia degli abati di Saint-Germaine_des_Prés. Il tempo che Dio accorda a ognuno di noi è come un prezioso
tessuto che noi ricamiamo del nostro meglio. Ho ordito la mia trama
con ogni sorta di illustrazioni filologiche. Così volavano i miei pensieri e, annodandomi il fazzoletto sulla testa, l'idea del tempo mi riportò al passato e, per la seconda volta nel giro di un quadrante, pensai a te, Clèmentine, per
benedirti nella tua posterità, prima di soffiare sulla candela e di addormentarmi al canto delle ranocchie.

A. FRANCE, Il misfatto del professor Sylvestre Bonnard,
Serra e Riva

Ed., pag.77

12 aprile 2009

Letteratura nel quadrante 1

DEUS EX MACHINA: L'OROLOGIAIO

[...] Ma il cielo, pietoso dell'umana generazione, vedendo che il
soverchio pensare alle cose, anticipatamente ci avrebbe consumati, mandò al mondo una setta novella di uomini, a far fronte a quella importuna genia, che con le
sue rigorosità guastava la quiete dei viventi. Furono questi gli oriuolai; cotanto privilegiati dal cielo, ch'ebbero ingegno di chiudere ventiquattro ore in una cassettina di argento, di oro o di altro metallo; e dividerle anche in minuti, secondi, e quasi attimi; riducendo la cosa ad un modo, che ognuno può avere a posta sua nella tasca un giorno e una notte: cosa che quanti furono Zenoni, Crati e Crateti,non avrebbero indovinata giammai. [...]
Non è dunque punto da maravigliarsi, se dopo questa benedetta invenzione
degli oriuoli, gli uomini vivono più spensierati, più quieti; se non si vede gran movimento nelle genti; se non ci sono quelle antivedenze, che faceano un tempo
disperare. Per la qual cosa, io stabilisco, che i veri filosofi che hanno illuminato il mondo sieno gli oriuoli.

G. GOZZI Osservatore, parte II.
In Crestomazia di G. Leopardi, pag 242

Berruguete 1

CANE DI PANE

Berruguete corre intorno al palazzo per acciuffare un cane di piccola taglia che gli ricorda qualcosa o qualcuno che ha già conosciuto. Il cane è lì ma non si fa afferrare e Berruguete allora prova nostalgia, una nostalgia feroce come la può dare solo una cosa che ci appartiene e che non possiamo raggiungere. Sembra la nostra migliore opportunità, ma ci sfugge. E' un sorriso che non guarda noi e questo ci dispiace.
"Perché insegui quella povera bestia?" dice il fornaio. "Non vedi che ama di libertà la povertà e lo stento? Credi che se lo avesse voluto non avrebbe trovato già un padrone? Ma non lo vuole. Non lo vuole."
Allora Berruguete piange, piange come se tutte le nuvole fossero nei suoi occhi. Appoggia la fronte al muro e con quei goccioloni di lacrime a singhiozzo vorrebbe scioglierne tutti i mattoni. Potrebbe fondere tutti i palazzi che sono lì intorno, passare nei muri come una crema nei bomboloni.
Il fornaio capisce che è meglio riportare alla ragione quel diavolo che lacrima e singhiozza. E singhiozza talmente che certi strappi gli partono violenti dalla bocca e vibrando sembrano tornare indietro nella gola e se ne vanno giù per il collo e tutta la persona, che infatti si scuote e vibra e pare che Berruguete si prenda a morsi da sé.
“Ma cosa vuoi che sia un cagnetto come quello?" dice il fornaio.
Così gli va vicino e lo rincuora. Ma quello niente.
“Ma perché" gli dice, "perché lo vuoi quel cane? Ti ha forse fatto un torto? Ha forse morso i tuoi calzoni?"
“Quel cane" dice Berruguete tra le lacrime, "quel cane è mio zio!"
Allora il fornaio prova una grande pietà per Berruguete. Entra nella sua bottega e si mette a lavorare un pezzo di mobida pasta e gli dà forma di cagnetto.
Il fornaio è un artigiano esperto. E lesto. Se gIi dai una mollica ti fa un paesaggio. Con un pugno di farina è capace di creare tutto un panorama di case, boschi e città.
Solo i fornai potrebbero dar vita a una nuova civilità, fare addirittura un mondo nuovo, diverso e migliore. Ma ci sono certi passeri neri che non si perdono una briciola e allora questo mondo non si vede e non si vedrà mai.
Insomma, Piero fornaio fa questo cagnolo con delle zampette così deliziose, con un musino di tale grazia, una codina talmente vezzosa che quando il pane esce dal forno non sa lui stesso se darlo a quel piagnone di fuori o tenerlo per sé. Comunque la cosa è fatta e tanto vale darglielo. Lo chiama dalla soglia deIIa bottega e dice: "Vieni, vieni qua Berru, te ccà, tiè tiè, tzu tzu tzu."
Berruguete va verso di lui e lo raggiunge, mite. Siede sul gradino su cui batte il sole di questa primavera tardiva.
Piero fornaio siede vicino a lui, con fare dolce gli dice: "Ecco il tuo cane di pane. Prendilo e non stare lì a frignare ché mi spaventi tutte le donne che fanno la spesa."
Ecco che quello si sente rincuorato, smorza i singulti.
La buccia amara del dolore si apre piano piano, viene messa via la parte peggiore.
Piero e Berru guardano l'opera. Vedono bene che acqua e farina sono una gran cosa messe assieme. Capiscono la storia ebraica del fango e di chi ci soffiò sopra. Di Adamo fatto di acqua e terra, di Eva cotta dal fuoco del sole.
E stanno assorti, gli occhi persi negli occhi gonfi del cane fatto di pane... Sono solo due piccole borchie di pasta dorata. Ma hanno dentro la vita, danno il coraggio che dà l'ora mattutina. Sono la calma. L'inizio della tregua. L'alba.
Con la mano sinistra Piero fornaio dà un pizzico alla zampetta del pane, ne stacca un grammo, lo tiene fra due dita. Lo alza che quello brilla di luce nel controluce, fuma di forno, svapora la sua anima in un bagliore. Poi, con molta dolcezza, lo mette sulle labbra di Berruguete che ne prende il calore quasi con spavento. Sa, sa bene che è un miracolo, lo vede alla luce del sole.
E Piero e Berru mangiano pane. Un pizzichino tu, un pizzichino io.
Il cane, che è un pane, si lascia prendere da ogni parte. Si concede per vocazione e mansuetudine antica. Perché il pane è il migliore amico dell'uomo.
E mentre questo accade, a due passi da loro, lo zio di Berruguete sta a gambe larghe mezzo seduto su un alto scalino invisibile. Lo fa come lo fanno i cani.

Povertà dei tempi poveri

Noi...
siamo così poveri che andiamo a far la spesa al mercatino delle bucce

11 aprile 2009

Supermarket

Al supermercato porsi, come al solito e con la cortesia imbarazzata di sempre, la tessera fedeltà. La cassiera passò tutti gli articoli, uno a uno, come al solito. Lo scontrino si concludeva con il tradizionale saluto a mio nome. Ma cominciava a seccarmi che il sistema informatico del supermercato memorizzasse e tenesse traccia di tutti i miei acquisti, alcuni dei quali rivelatori di chissà che cosa o potenzialmente imbarazzanti: pannolini, preservativi, shampoo antiforfora.
Nell'elenco di quel giorno di spese distratte e forsennate c'erano anche due barrette di cioccolata, una piccola bottiglia di liquore, e tre pacchetti dei miei sigari preferiti. Tutta roba proibita, insomma. Proibita da mia moglie, s'intende, altrimenti legittima in qualsiasi altra famiglia, per qualsiasi altro uomo nato dopo la rivoluzione francese.
Avevo sepolto la merce a rischio sotto una montagna di acquisti utili per la casa e per i bambini sperando che il volume delle cose nascondesse ogni traccia dei miei peccati, o meglio delle mie libertà, del mio personalissimo piacere.
Mi ero guardato bene intorno al momento di estrarre dagli scaffali i miei sogni di alcool, di cioccolato e di tabacco. La paura che qualche vicina di casa mi vedesse e ne parlasse non mi abbandonava. Da quando poi Matilde, mia suocera, si era data all'informatica non avevo proprio più pace. S'era messa a seguire lezioni base sull'uso del computer in certi corsi serali per anziani, per poi passare con una brillante quanto rapida ascesa, ai corsi di hackeraggio spinto, e quasi per scherzo. Ed era stato il peggio che mi potesse capitare. Non so per quale insana ed innata inclinazione, lei riusciva a fare cose che nessuno dei suoi vecchi maestri di corso era mai riuscito a fare. Intrusioni... non c'era niente di più facile per Matilde, la suocera del desk... la valchiria delle reti. E da quel momento ogni barriera alla mia vita privata era caduta, perchè ogni abilità della maledetta sembrava diretta a controllare ogni mia mossa, ogni mio pieno di benzina, ogni acquisto online, ogni pagamento di bolletta via homebanking.
Ma sapevo bene che questo, probabilmente, non sarebbe bastato. Non l'avrei fatta franca.
No, non ci sarei riuscito se non avessi manomesso, quella stessa mattina, il suo impianto di spionaggio, mettendo fuori uso i banchi di memoria con un velo di silicone che ne inceppava lo scambio elettrico con il resto della macchina infernale. Avrebbe perso dei giorni prima di capire. Io intanto avrei consumato in santa pace le mie barrette dolci e croccanti, avrei tracannato la modesta quantità di liquorino in piena beatitudine, fumando a più non posso con un ebete sorriso sulle labbra. Avrei goduto il piacere del peccato, le piccole felicità dell'uomo che vive senza guardiani.
Questo pensavo mentre la cassiera faceva andare con aria professorale il suo bip bip della lettura codici prodotto. La guardavo e mi sembrava di conoscerla. Ma mentalmente ripassavo tutte le mosse fatte fino a quel momento.E mi dicevo: è tutto a posto, Mario, è ok, l'hai fatto, bravo. E più ancora immaginavo la faccia di Matilde: oscura, viola, nera.... una faccia non illuminata dalla luce del computer, accecata nella sua vita da guardona. Una cosa livida ed inutile.
Gli ultimi bip bip dei codici- prodotto... la tessera fedeltà che scivola, finalmente anonima, anche se per poco, nelle mani della cassiera. Ormai è fatta, è andata. Nessuno sa. Nessuno ha visto.
“Arrivederci, signorina”.
“Arrivederci e grazie. E mi saluti la signora Matilde”.
E come un ladro, in preda al panico, infilo la prima uscita.

Il porco letterario

La regione Campania mi ha finanziato un progetto molto interessante.
Si tratta di un Porco Letterario. Il famoso Porco Letterario del Cilento. L'idea è semplice ma molto coinvolgente e destinata a far crescere in maniera smisurata il turismo, soprattutto nella zona interna della provincia di Salerno.
Proprio qui infatti è stata avviata la sperimentazione che non ha lesinato motivi di compiaciuta soddisfazione a quanti vi hanno preso parte.
L'idea è semplice, come ti dicevo. Innanzitutto si prende un porco. Lo si scolarizza a dovere per circa sei sette mesi durante i quali ello impara ad essere compìto, a comportarsi in maniera consona ai doveri che lo attendono, a mangiare solo quando necessario, a sorridere solo quando piace agli altri. Ello saprà, a fine corso, accogliere graziosamente i gruppi turistici, vestirà in modo consono ad un vero abitante del Cilento, saprà essere riverente con le signore, educato ma distaccato con i signori e con i bambini, poi, un vero simpaticone.
Ello porco a questo punto però non è ancora pronto. Una serie di lezioni tenute da educatrici dal polso fermo ma dall'animo sensibile (e qui noi tiriamo in ballo la crema dei docenti del posto!) si occuperà di indottrinare il porco letterario secondo i dettami del purismo linguistico, tipico della zona di sua residenza.
In pratica ello imparerà le inflessioni locali, tanto le cupe e ridondanti parlate montane quanto quelle acute e femminine della costa. Non sarà da trascurare l'eloquio tipicamente vallese che, a causa della sua specificità, vedrà il porco letterario trasferirsi nella cittadina e passeggiare per le vie del centro, taccuinetto alla mano per gli appunti, cestino di vimini per la merenda, e la canonica tutina alla marina che si richiede ad un porco di buona quanto agiata famiglia. In pratica ello sarà indistinguibile da un qualsiasi abitante vallese.
E' bene che ello non si distragga neanche durante il trasferimento dalla stalla a Vallo. Durante il tragitto, infatti, gli verranno mostrate immagini della tipica facies vallensis, tra cui ello stesso riconoscerà i suoi più prossimi avi, cominciando così a costruirsi una identità precisa e netta.
Nel pulmino per il trasferimento saranno anche proiettati film didattici e la serie di Quirk Quork Quark dedicata alla vari avita animale del circondario..
Ogni momento è un'occasione di apprendimento. Il porco letterario lo capirà molto presto.
Ma questa fase è semplicemente preparatoria. La vera formazione del porco è, come si sarà già compreso, letteraria.
Quindi è bene che ello conosca tutta la tradizione letteraria italiana. Sarà ovviamente rispettato il programma ministeriale.
Non verrà in tal senso trascurato lo studio della commedia dell'arte e delle sue simpaticissime maschere: Porcinella, ad esempio. E si controllerà che i compiti assegnati vengano redatti con puntualità ed ordine. Tutto concorrerà a non fare di ello un porco di buono.
In tutto questo periodo sarà necessario vigilare anche sui costumi sessuali del detto porco. Soprattutto si farà attenzione acciochè ello non abbia contatti con le vacche, soprattutto con le porche vacche che a causa della loro mista e sinistra natura di bovino e suino, possono anche ingenerare casi di disturbata personalità nel porco. La letteratura freudiana cita anche casi di schizzofrenia porcina e questo deve essere considerato dalle assistenti (e qui noi tiriamo in ballo il fior fiore delle maestre locali).
Una volta superati i tests attitudinali predisposti da un comitato di valutazione all'uopo eletto e foraggiato, il porco è pronto per iniziare la sua attività vera e propria.
Si mette il porco all'ingresso di un paese del Cilento. Arriva il pullman dei turisti. Il porco si avvicina con grazia all'automezzo, facendosi accompagnare da un guardiano che gli sta sempre vicino. Il porco entra nel pullman. I turisti sono sorpresi e fanno tutti "O" con la bocca. Il porco letterario, per rompere il ghiaccio, immediatamente declama una poesia, prima nella versione in lingua originale, poi immediatamente dopo nell'idioma cilentano.
Tutti i turisti faranno "A" con le bocche.
Il porco scende dal pullman e si rimette gli occhiali da sole. Ello china la testa. Dà uno sguardo al guardiano che lo accompagna.
Ello china la testa un altro poco.
Il guardiano lo cavalca e gli abbraccia il collo.
Il porco alza la testa e vede il cielo estivo smaltato dal sole.
Il guardiano gli passa la lama nel collo.
Il porco aveva dimenticato di dire ai turisti "Buongiorno".
E così si muore.