18 aprile 2009

La rimessa

Ho visto per l'ultima volta le spalle di mio padre in una sera di dicembre. E' stata quella volta lì che mi sono accorto di quanto fossero belle, larghe e forti come le hanno certe volte i ragazzi sugli scogli, un attimo prima di tuffarsi. Notai solo allora quanto spazio prendessero nel vano delle nostre porte e nella nostra vita.
Mio padre non ha mai amato uscire di casa la sera, né le combriccole lavorative vere solo per cene e cenette qua e là, dicendo sempre a tutti di no.
Ha avuto, all'opposto, una sorta di vocazione preistorica a starsene a cuccia appena buio; un poco cercando riparo, un poco per fare il guardiano e vegliare.
Veramente non ricordo bene come fu che cominciò ad andarsene, frettoloso e avvolto dal segreto, quasi ad ogni dopocena. Le scuse cambiavano alle domande di mia madre e una volta era la macchina da spostare, una volta la rimessa da mettere in ordine, un'altra ancora la ricerca di un arnese in giardino che avrebbe prestato, domani, a un amico.
In principio non ci facemmo caso perché queste uscite erano così episodiche che non riuscivano a legarsi l'una all'altra per mettere insieme la forma consistente di un sospetto.
Furono invece l'inclemenza del tempo e la neve straordinariamente abbondante a far prendere corpo alla nostra preoccupazione. Per quanto l'aria di dicembre fosse gelida e come abitata dalle spine, mio padre senza timore si avventurava fuori ad ogni ora.
Io e mia madre restavamo a pulire i vetri della cucina e a spiare fuori, mentre mio fratello che le stava tra le braccia teneva già gli occhi chiusi nel sonno. Da lì vedevamo chiaramente che nessuno era entrato dal cancello né che mio padre ne usciva. Lo scoprivamo invece voltare a sinistra verso la rimessa e sparire dietro la fila dei meli.
A mia madre bastava. Il fatto che suo marito fosse inequivocabilmente solo, ancora nel territorio della casa, era per lei come una consolazione, un parziale risarcimento a quell'angoscia di essere tradita che di certo le aveva attraversato i pensieri.
Non era così, per me. Ho pensato più volte alle sere che avrei voluto seguirlo, andare a spiare perché, tutto ad un tratto, mio padre sentisse il bisogno di andarsene via da noi.
La rimessa, da sempre, è dove le macerie acquistano solidità e resistenza. Lì dentro ho spiato mio padre. L'ho guardato stando chiuso nel mio cappotto, nel gelo di un dicembre inclemente e sfrontato.
Li ho visti tutti e due, lui e quel suo amico, guardando dal finestrino nella rimessa. Mio padre senza camicia, seduto, di spalle. L'altro, invece, non si era tolto nemmeno la giacca. Gli vedevo la nuca spuntare
dal bavero e i capelli bianchissimi tirati all'indietro. Ma non era un vecchio e questo mi sorprese. Era uno della mia stessa età, più o meno venti, venticinque anni.
Così, ho poggiato l'orecchio sul vetro gelato e ho sentito la voce paterna venire dal freddo.
Lui gli chiedeva:" Anche i miei figli, anche loro lo sai, pure mia moglie... Credo di avergli dato quello che avevo, ma un po' di allegria loro non me l'hanno mai data, non me l'hanno ancora restituita... Se sono felici lo sono sempre da soli, per conto loro. E poi, lo vedi anche tu, adesso ho i gerani tutti bruciati dal gelo. Ma hanno stentato sin dal principio quest'anno. Eppure gli ho messo tutto: la terra, la torba, il pietrisco. Neanche l'acqua gli è mai mancata... Che dici, che cosa sarà?"
Parlava di noi con quel tipo in un modo che mi fece dispetto.
Ma il ragazzo non seppe che dire. Ed io ero contento che non gli sapesse rispondere. In quel silenzio mio padre è rimasto sospeso nel suo gesto di domanda, gli occhi puntati sul volto del tipo, la bocca un po' aperta, la cenere sui pantaloni.
Ed è stato allora, proprio allora che mio padre ha levato la mano di tasca, l'ha allungata sulla sua spalla e ha tirato giù.
Quello ha cacciato fuori una lingua rosa come ce l'hanno i gatti e se l'è passata più volte sull'ala tenuta, fino a quel punto, coperta sotto la giacca. Non era molto lunga. E il colore tra il bianco e il beige, come la mollica del pane.
Gli era bastata un'ala fatta di pane per venire fin qui.
Per un poco sono rimasti a guardarsi senza espressione. Poi mio padre ha cominciato, lentamente. Ne prendeva dei piccoli pezzi con due dita, li portava alla bocca e ingoiava.
Non so quante sere mio padre abbia trascorso a piluccare l'angelo, a sabotargli le ali.
Dopo si è alzato. E mio padre ha fatto in fretta a seguirlo come per cortesia, quasi come in un atto di galanteria.
Se ne stavano andando.
Allora avrei voluto dirgli:" Papà, senza che te ne vai con quello, non ti credo. E' uno scherzo che avete preparato insieme per far ridere me che invece adesso ho solo un dolore, vedi, qui, un dolore forte e vuoto che può far male come solo un dente tutto scavato può farlo."
Ma l'angelo gli ha poggiato una mano sul braccio e lo ha fatto voltare.
Mio padre non ha saputo dirgli di no, gli ha ubbidito con gli occhi per terra.
E dopo, l'angelo, incerto nella sua lingua celeste, gli ha detto: "Vedresti, vedresti che ti ci troverai bene."

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